SULLA LINGUA ETRUSCA
ovvietà ignorate e contraddette
e il fallimento filologico-linguistico
In Italia, negli ultimi 70 anni, in ordine allo studio della lingua
etrusca sono state ignorate, trascurate e contraddette numerose e
autentiche “ovvietà” di carattere linguistico e precisamente
sono stati ignorati e non applicati alcuni procedimenti e metodi del
tutto facili e perfino ovvi – per l’appunto -, che tutti i glottologi o
linguisti storici propriamente detti siamo soliti applicare giorno per
giorno nello studio di una qualsiasi lingua, appartenente a una
qualsiasi famiglia linguistica.
La ignoranza e la mancata applicazione di tali “ovvietà”
metodologiche e procedimenti ermeneutici o interpretativi nello studio
della lingua etrusca sono dipese da un fatto certo e chiaro: negli
ultimi 70 anni lo studio della lingua etrusca è stato accaparrato,
monopolizzato e governato dalla “scuola archeologica italiana”, cioè dagli archeologi della terra e dell’area geografica dove per l’appunto è fiorita la grande “civiltà etrusca”.
1) Prima “ovvietà” ignorata, trascurata e contraddetta dagli
archeologi italiani: non c’è uomo di cultura che non sappia e non
capisca che tra l’archeologia da una parte e la glottologia o
linguistica comparata e storica dall’altra esiste un oceano di
differenze sia in ordine all’oggetto di studio sia in ordine ai metodi
adoperati. Pertanto ogni e qualsiasi intervento che un archeologo – in
quanto tale - tenti di effettuare in ordine allo studio della lingua
etrusca è del tutto illegittimo, velleitario e destinato al fallimento.
E appunto dall’aver ignorato, trascurato e contraddetto questa
prima, principale e pregiudiziale “ovvietà” sulla immensa differenza
che esiste fra la archeologia da una parte e la glottologia o
linguistica comparata e storica dall’altra sono derivate tutte le altre
numerose “ovvietà” che sono state ignorate e contraddette dagli
archeologi nello studio della lingua etrusca.
2) Della lingua etrusca si conservano più di 11 mila iscrizioni, con
una documentazione di circa 8.500 vocaboli l’uno differente
dall’altro. È doveroso ricordare che il contenuto documentario e quindi
il valore ermeneutico od interpretativo di queste 11 mila iscrizioni è
subito apparso agli studiosi notevolmente ridotto, quando si sono
accorti che nella massima parte quelle iscrizioni sono funerarie e
quindi ovviamente brevi e ripetitive. D’altra parte, nonostante questa
grave difficoltà iniziale, le due cifre citate sono chiaramente enormi
e di questo loro grande vantaggio possono godere meglio solamente due
conosciutissime lingue antiche, il greco ed il latino.
E allora, col procedimento metodologico della “comparazione
interna”, il reciproco confronto di differenti 8.500 vocaboli – se si
fosse effettuato realmente e completamente - non avrebbe non potuto
portare alla “decifrazione” del significato di numerosi vocaboli
etruschi.
Riconosco che questo confronto di “comparazione interna” in effetti
c’è stato, ma in misura assai ridotta e ha portato alla decifrazione di
sole poche decine di vocaboli continuamente ricorrenti nelle iscrizioni
etrusche; MI «io, me», CLAN «figlio», CLENAR «figli», SEX «figlia»,
PUIA «moglie», LUPU «morto-a», LUPUCE «morì, è morto-a», AIS, EIS
«dio», AISER, EISER «dèi», SUTHI, SUTI «tomba, sepolcro», i numerali
TU, THU «uno», ZAL, (E)SAL «due», CI «tre», MAC, MAX «cinque», SEMPH
«sette, CEZP «otto», NURPH «nove», SAR, ZAR «dieci», ZATHRUM «venti»,
CIALXL «trenta», SEALXL «sessanta» e qualche altra decina di vocaboli.
Dunque, il procedimento della “comparazione interna” fra gli 8.500
vocaboli etruschi conservati è stato in questi ultimi 70 anni applicato
dagli archeologi, monopolizzatori della lingua etrusca, soltanto in
misura assai ridotta. In maniera particolare essi si sono guardati bene
dall’immettere nella “comparazione interna” anche il grande numero di
antroponimi etruschi conservati (prenomi, gentilizi e soprannomi o lat.
cognomina), del tutto convinti che questi non abbiano alcun
valore ai fini della “decifrazione del significato” dei singoli
vocaboli etruschi. E invece, nell’avere tralasciato di prendere in
esame pure i numerosi antroponimi etruschi, gli archeologi - come
mostrerò più avanti - hanno sbagliato e anche di grosso.
3) Ma assai più grave è stata la mancata “comparazione esterna”
degli 8.500 vocaboli etruschi posseduti con altrettanti di altre lingue
antiche e in maniera particolare ancora col greco e col latino.
Purtroppo i “numeri”, nonostante e a dispetto della loro precisione,
si dimenticano con notevole facilità. In linea di fatto mi sembra di
ricordare che sia dell’antica lingua greca, sia della lingua latina si
conservino e si conoscano attualmente più di 100 mila vocaboli, cioè,
sommati assieme, più di 200 mila; che è una cifra enorme, capace con
ciò di offrire ai linguisti un vastissimo campo di ricerca e di
comparazione.
Ciò premesso, considerato che Greci, Latini ed Etruschi hanno
convissuto nel medesimo spazio geografico e per numerosi secoli
insieme, è senz’altro assurdo ritenere che numerosi vocaboli della
lingua etrusca, sconosciuti nel loro valore semantico o “significato”,
non trovino esatto riscontro nei 200 mila vocaboli greci e latini, il
cui “significato” invece è del tutto conosciuto. E si tratterà o di
vocaboli greci e latini entrati nella lingua etrusca oppure di vocaboli
etruschi entrati nella lingua greca o in quella latina. (Si deve pur
finire di ritenere che un certo numero di vocaboli greci e latini siano
entrati nell’etrusco e che nessun vocabolo etrusco sia entrato nel
greco e nel latino; eventi di comunicazione e di scambio fra una
civiltà e un altra non hanno mai un’unica e sola direzione!).
Ed allora la logica conseguenza di questa speciale e fortunata
situazione linguistica generale sarebbe la seguente: il “significato”
dei vocaboli latini e greci del tutto conosciuto dovrà essere il
“significato” pure dei vocaboli etruschi corrispondenti. Pertanto il
“significato” di tanti vocaboli etruschi si sarebbe in questo modo
finalmente potuto “decifrare” e scoprire.
4) Come è stato possibile che gli archeologi italiani abbiamo
ignorato e non applicato questo importante e indispensabile e quindi
“ovvio” procedimento della “comparazione esterna” tra l’etrusco da un
lato e il greco e il latino dall’altro? È stato possibile per la
ragione che essi hanno accettato del tutto acriticamente la tesi
secondo cui “L’etrusco è una lingua non comparabile con nessun’altra”.
Questa stupefacente tesi era stata per la prima volta sostenuta
dallo storico greco Dionisio di Alicarnasso (I 30, 2), che era vissuto
qualche decennio prima di Cristo; senonché egli non era affatto un
glottologo o linguista, anche per il motivo che è stato necessario che
dalla sua epoca passassero 1.800 anni prima che nascesse e si
affermasse in Europa la glottologia come “studio comparato e storico
delle lingue”.
In realtà la tesi secondo cui “l’etrusco è una lingua non
comparabile con nessun’altra” avrebbe avuto una fondatezza scientifica
solamente a una condizione: che gli archeologi italiani avessero
dimostrato di conoscere tutte le lingue di tutti i popoli che
sono vissuti nel passato attorno al bacino del Mediterraneo; e
conoscendole tutte e alla perfezione gli archeologi avrebbero potuto
alla fine concludere con la loro tesi negativa. Senonché gli archeologi
italiani non hanno mai dimostrato di possedere quella vastissima e
approfondita competenza di linguistica storica, ragion per cui la loro
tesi della “incomparabilità della lingua etrusca con una qualsiasi
altra” era ed è del tutto destituita di fondamento. D’altra parte io
sono del parere che non sia esistito nemmeno un linguista propriamente
detto che possedesse quella vastissima e approfondita competenza di
linguistica storica, ragion per cui neppure alcun linguista sarebbe
stato in grado di pronunziare e motivare tale tesi.
In effetti, quando gli archeologi hanno preso come buona e hanno
divulgato la loro tesi dell’”etrusco lingua non comparabile con
nessun’altra”, non solamente sono andati contro un’altra evidente e
forte “ovvietà”, ma addirittura hanno invitato e imposto al linguista
che avesse voluto partecipare ai loro convegni e a collaborare alle
loro riviste a non far uso di quello che è lo strumento primo e
principale della glottologia, la “comparazione” appunto.
Naturalmente è avvenuto che quasi tutti i linguisti, italiani e pure
stranieri, non abbiano accettato questa sentenza e imposizione degli
archeologi italiani, ma hanno pagato il loro rifiuto con la totale
estromissione dalle grandi manifestazioni che gli archeologi hanno di
volta in volta organizzato anche sul tema della lingua etrusca.
5) Ma la condanna pronunziata ed eseguita dagli archeologi del
metodo della “comparazione” nello studio della lingua etrusca se ne è
logicamente trascinata un’altra: la condanna della “etimologia” o del
“metodo etimologico”. Questi sono vocaboli condannati, proibiti,
esecrati nei convegni e nelle riviste degli archeologi rispetto alla
lingua etrusca.
Ed io invece in primo luogo sostengo che essi commettono un grave
errore non facendo una necessaria e importante distinzione tra la
“comparazione” linguistica da un lato e la “etimologia” dall’altro. Se
io confronto o connetto la glossa latino/etrusca Amphiles, Ampiles «maggio», cioè «mese dei pàmpini», col greco ámpelos «vite, vigna», io
stabilisco semplicemente una “comparazione”; se invece io dicessi che
l’appellativo etrusco “deriva” da quello greco oppure il contrario,
allora sì farei una “etimologia”, che significa e implica appunto la
“derivazione”.
Nella “comparazione” che io prospetto fra gli 8.500 vocaboli
etruschi posseduti ma sconosciuti e i 200 mila greci e latini posseduti
e conosciuti, è già molto importante fermarsi a questo stadio, dato che
spesso ci consente di “decifrare” o acquisire appunto il “significato”
dei vocaboli etruschi. Ma nessun può imporre a un linguista di non
procedere oltre, di non adoperare anche l’altro importante metodo
della sua ricerca, il “metodo etimologico”. E nell’esempio fatto
nessuno potrà proibire a un linguista di prospettare la tesi che i
vocaboli etrusco Amphiles, Ampiles «maggio», «mese dei pàmpini», greco ámpelos «vite, vigna», lat. pampinus «pàmpino» e (proto)sardo s'ampilare
«arrampicarsi anche della vite» “derivano”, uno indipendentemente
dall’altro, da un vocabolo della viticoltura del “sostrato mediterraneo
e preindoeuropeo”.
In effetti, pretendere da un linguista che voglia interessarsi della
lingua etrusca, di non adoperare la “comparazione” né l’”etimologia”
corrisponderebbe a pretendere che un uccello volasse senza adoperare le
due ali.
Ed è questa un’altra “ovvietà” ignorata e contraddetta dagli
archeologi: il linguista ha il diritto e il dovere sia di effettuare la
“comparazione” dei vocaboli studiati sia la loro “etimologia” od
origine.
6) D’altra parte è un fatto che gli archeologi italiani in maniera
unanime sostengono che per la lingua etrusca "non esiste alcun problema
di decifrazione", in quanto essa sarebbe stata già "decifrata del
tutto". Ma anche con questa loro tesi essi non si accorgono di avere un
concetto molto improprio e in parte errato della "decifrazione
linguistica".
Per una lingua antica di cui si abbiano soltanto documentazioni
scritte, senza cioè alcun riscontro in lingue odierne, in effetti
esistono due differenti "decifrazioni", o, meglio, due differenti gradi
di decifrazione. Il primo consiste nel "decifrare le lettere
alfabetiche” o grafemi, cioè nel riuscire a trasformarli in suoni orali o fonemi,
cioè nel riuscire a pronunziarli; e questo primo grado di decifrazione
di certo è stato già effettuato per la lingua etrusca, la quale, in
virtù dell'uso che gli Etruschi facevano dell'alfabeto greco, è ormai
quasi perfettamente e totalmente leggibile o pronunziabile. Ma la vera
e più importante "decifrazione" viene dopo, quella per cui dai grafemi
si passa a capire quale effettivamente sia il significato che essi
portano e nascondono, quella decifrazione per cui dai "segni grafici"
si riesce a passare ai rispettivi "significati fattuali o concettuali".
È chiaro che il vocabolo e il concetto di "decifrazione" trae
origine dalla pratica dei messaggi segreti, che vengono criptati e
trasmessi con "cifre". Ebbene, in un ufficio di decifrazione militare,
in cui mi sono trovato a operare durante l'ultima guerra mondiale, il
nostro primo compito era quello di riuscire a "captare" esattamente le
"cifre" dei messaggi cifrati del nemico, ma la vera decifrazione di
questi messaggi veniva da noi effettuata solamente dopo, quando da
quelle cifre captate riuscivamo a passare al messaggio che esse
portavano e nascondevano, quando cioè riuscivamo a passare dai segni cifrati ai rispettivi fatti o concetti significati e trasmessi.
Ebbene, nonostante che gli archeologi italiani lo neghino con
decisione, il problema della decifrazione della lingua etrusca sussiste
tuttora e in larga misura. Noi leggiamo e pronunziamo in maniera quasi
del tutto sicura tutti i vocaboli che compaiono nella iscrizioni
etrusche, ma, a parte gli antroponimi, noi ignoriamo ancora l’esatto
significato di centinaia di vocaboli etruschi.
7) Un’altra “ovvietà” ignorata e contraddetta dagli archeologi
italiani è quella relativa alla scelta iniziale del materiale di
studio. Non occorre grande esperienza di studi linguistici per sapere e
comprendere che le iscrizioni di una lingua antica sconosciuta tanto
più facilmente sono traducibili quanto più sono lunghe. Nelle
iscrizioni lunghe infatti le possibilità sia della “comparazione
interna” sia della “comparazione esterna” dei vocaboli sono molto più
numerose che non nelle iscrizioni brevi. Oltre a ciò, nelle iscrizioni
lunghe sono anche possibili gli emendamenti di eventuali errori dello
scriba antico, mentre nelle iscrizioni brevi tali emendamenti sono
quasi sempre impossibili. Inoltre nelle iscrizioni brevi – proprio per
esigenza di brevità – si adoperano di frequente abbreviazioni, le
quali spesso risultano indecifrabili perché fatte a casaccio da
differenti scribi. E non bastando ciò, la scoperta della “falsità” di
una iscrizione lunga è enormemente più facile della scoperta della
“falsità” di una iscrizione breve.
Tale nuova “ovvietà” dello studio preminente del testo lungo
rispetto a quello breve avrebbe dovuto spingere gli archeologi ad
affrontare innanzi tutto i testi etruschi lunghi posseduti, cioè il Liber linteus della Mummia di Zagabria che, tolte le numerose ripetizioni, presenta più di 500 vocaboli, la Tabula Capuana che ne presenta circa 190, il Cippo di Perugia circa 90, la Tabula Cortonensis circa
60; invece gli archeologi si sono buttati alle iscrizioni etrusche più
brevi. Alcune delle quali certamente erano di facile interpretazione e
traduzione, altre invece si sono rivelate subito di difficilissima
interpretazione e traduzione.
Sarebbe troppo lungo e pure inutile mostrare le lunghe e intricate
diatribe che gli archeologi hanno intrecciato intorno ad alcune brevi e
brevissime iscrizioni etrusche, per le quali esisteva ed esiste anche
la possibilità che sia intervenuto qualche errore da parte dello scriba
antico e che qualcuna sia addirittura “falsa”.
D’altra parte, nell’ambito del linguaggio, è un fatto di facile
constatazione che in generale i messaggi, quanto più sono brevi, tanto
più corrono il rischio di essere ambigui o almeno poco comprensibili.
8) La scarsa rilevanza significativa dell’abbastanza ricco materiale
linguistico etrusco fino a noi pervenuto è derivata anche dalla
circostanza che molto di quel materiale è costituito da un numero assai
elevato di antroponimi (prenomi, gentilizi e soprannomi) a fronte di un
materiale lessicale (appellativi, prenomi, numerali, verbi, avverbi,
preposizioni e congiunzioni) assai più scarso.
Questa grave difficoltà costituita dal tipo di materiale linguistico
etrusco conservatoci non si può né si deve negare, però c’era da
effettuare in proposito una importante operazione, che invece non è
stata neppure tentata dagli archeologi: è ben vero che gli antroponimi
si presentano a una prima analisi come “opachi”, nel senso che indicano
o “significano” all’ascoltatore o lettore soltanto singoli uomini e
singole famiglie, però i veri linguisti sanno che, analizzati a dovere,
anche gli antroponimi possono diventare “trasparenti”, nel senso che
possono rivelare anche il loro originario “significato”. In origine
infatti anche gli antroponimi erano altrettanti “appellativi”,
costituiti quasi sempre da sostantivi o aggettivi sostantivati, pure al
diminutivo o all’accrescitivo, i quali indicavano o un dato anagrafico
oppure una caratteristica, fisica o morale, dell’individuo denominato.
Ad esempio, i cognomi italiani Cremona, Ferrara e Verona in origine indicavano la provenienza di un famiglia da una di quelle città; i cognomi Bianchi, Neri e Rossi
indicavano, col plurale di famiglia, che i rispettivi individui erano o
“bianchi” o “neri, bruni” o “rossi” di carnagione; i cognomi Forti, Gagliardi , Onesti indicavano una qualità morale dei loro titolari; i cognomi Medici, Mercante, Ferrari ne indicavano la professione; il prenome etrusco Larth significava «comandante, principe» (Cicerone, Phil., 9.4; Livio, IV.17.1) e l’altro Velthur «avvoltoio», ecc, ecc.
Dunque gli antroponimi, dopo una “opacità” iniziale, interrogati a
dovere dal linguista finiscono per offrire anche una “trasparenza” di
valore lessicale. E allora, anche il numero elevato di antroponimi
documentati dalle iscrizioni etrusche, se fossero stati analizzati
secondo le norme e le modalità della linguistica, avrebbero finito con
l’offrire anch’essi numerosi e importanti elementi e spunti lessicali
relativi alla lingua etrusca.
9) Fra i popoli della Penisola italiana coi quali gli Etruschi
vennero in contatto, quello più vicino furono i Romani. Fra i secoli
VIII e VI gli Etruschi e i Romani vissero quasi in una stretta
simbiosi. Si deve infatti considerare che il fiume Tevere non era
considerato allora al centro del Lazio, ma era considerato il confine
fra i Romani e gli Etruschi appunto. Per questa ragione la stessa Roma
non era considerata al centro del Latium vetus, ma era considerata una città di confine, fra l’Etruria e il Lazio appunto. Tanto è vero che lo stesso toponimo Roma molto probabilmente era etrusco, cioè una variante dell’appellativo ruma
«mammella», indicando il grande “seno” o grande curva che il Tevere fa
all’altezza dell’Isola Tiberina e inoltre che lo stesso nome del fiume
molto probabilmente era etrusco. Non solo, ma all’epoca della monarchia
vigente a Roma, la regnante dinastia dei Tarquini era di nazionalità
etrusca e inoltre aveva retto la città non per qualche decina di anni
come si pensa e si dice comunemente, ma per più di un secolo. Perfino
le più antiche iscrizioni che sono state rinvenute a Roma sono in
lingua e alfabeto etruschi e non in lingua latina.
Ebbene, nei lunghi e stretti contatti che gli Etruschi e i Romani
ebbero soprattutto in epoca monarchica, è evidente e certo che siano
intervenuti numerosi scambi di vocaboli fra le rispettive lingue e
soprattutto di antroponimi. La qual cosa è stata luminosamente
dimostrata dalla vecchia ma ancora importante e geniale opera di
Wilhelm Schulze, Zur Geschichte Lateinischer Eigennamen (1904),
il quale ha messo in evidenza una vasta corrispondenza di antroponimi
latini con altrettanti etruschi. Nella mia recente opera Dizionario della Lingua Etrusca
(Sassari 2005) ritengo di avere – in virtù dei successivi rinvenimenti
di nuove iscrizioni etrusche - notevolmente allargato il numero di
quelle corrispondenze, arrivando al numero di circa 1.600 antroponimi
etruschi che corrispondono, in maniera più o meno sicura, ad
altrettanti antroponimi latini.
Ma – come ho accennato prima - anche i gentilicia e i cognomina
latini, oltre che il loro valore propriamente antroponomastico, ne
hanno pure uno lessicale e ne ho tratto la conclusione che il valore
lessicale degli antroponimi etruschi è quello stesso dei corrispondenti
antroponimi latini. Dunque la “comparazione” e connessione fra gli
antroponimi latini e quelli etruschi ha consentito di allargare fino a
circa 1.600 il numero di vocaboli etruschi di cui, più o meno,
conosciamo ormai anche il valore lessicale e semantico, di allargare
cioè il numero di vocaboli etruschi di cui abbiamo, più o meno,
decifrato il valore semantico o “significato” prima ignorato.
10) È cosa molto nota che gli Etruschi, nella loro qualifica
largamente riconosciuta dagli antichi, di popolo “molto religioso” (che
significava anche “molto superstizioso”; erano già soliti fare, per
scaramanzia, le corna con le dita), influenzarono parecchio la
religione dei Romani. Sia sufficiente ricordare che della Triade
Capitolina dei Romani, solamente Giove era propriamente romano, mentre
le due altre divinità femminili Giunone e Minerva erano certamente di
origine etrusca. Era pertanto un’altra ovvietà linguistica
supporre che per i profondi influssi etruschi sulla religione romana
fosse entrata nella lingua latina anche tanta parte della relativa
terminologia religiosa degli Etruschi. E questo ingresso della
terminologia religiosa etrusca nella lingua latina era logico ed
“ovvio” supporlo e appurarlo nei più lunghi testi che possediamo della
lingua etrusca, il Liber Linteus della Mummia di Zagabria e la Tabula Capuana, dei quali si era subito compreso che si trattava per l’appunto di “testi religiosi”.
Ma gli archeologi italiani hanno tralasciato anche di tentare di
effettuare quest’opera di ricerca e di controllo, dato che si erano
guardati bene dall’affrontare i grandi testi della lingua etrusca,
mentre – come ho già detto - si sono scervellati nella interpretazione
e nella traduzione delle sole iscrizioni brevi.
Tutto al contrario io mi sono buttato nello studio approfondito
proprio dei lunghi testi religiosi etruschi, facendo perno appunto
nella convinzione che almeno una certa parte della loro terminologia
religiosa corrispondesse esattamente a quella latina. E i risultati da
me ottenuti con questa prospettiva metodologica ed ermeneutica sono
andati molto al di là delle mie più rosee speranze, ottenendo come
risultato finale che nella mia recente opera I Grandi Testi della Lingua Etrusca tradotti e commentati
(Sassari 2011) io abbia mandato avanti la più ampia interpretazione e
traduzione che sia stata finora effettuata di quei testi religiosi.
11) È cosa molto nota che il padre della storiografia occidentale,
il greco Erodoto (484-425 a. C.), in un suo passo molto famoso (I 94),
racconta che gli Etruschi dell’Italia non erano altro che la metà della
popolazione della Lidia - terra dell’Asia Minore o Anatolia, posta al
centro della costa del Mar Egeo - la quale era dovuta emigrare a causa
di una grave carestia durata ben 18 anni. Questo racconto di Erodoto fu
in seguito confermato e anche arricchito di particolari da altri 30
autori greci e latini, mentre fu contrastato dal solo storico greco,
Dionisio di Alicarnasso, il quale invece sostenne la tesi secondo cui
gli Etruschi erano originari della stessa Italia, erano cioè
“autoctoni”. Dionisio era vissuto quattro secoli dopo Erodoto e quindi
assai più tardi degli avvenimenti narrati ed inoltre era stato
sostanzialmente ostile agli Etruschi, dei quali contestava l’apporto
alla potenza di Roma, per attribuirla invece ai Greci.
Ebbene, era logico e perfino “ovvio” che tra i 31 antichi autori greci e latini (Erodoto + 30) favorevoli alla tesi migrazionista degli Etruschi e uno solo – e per di più “sospetto” – favorevole alla tesi autoctonista,
gli archeologi italiani dovessero optare per la tesi dei primi, e
invece optarono per la tesi del secondo. Bell’esempio, questo, di
grande “acribia storiografica”, nuovo macroscopico episodio di
“ovvietà” metodologica ignorata e contraddetta: optare per la
testimonianza di un solo teste e disattendere quella di altri 31 testi!
A questo proposito io aggiungo che pure la nota usanza religiosa e
civica degli Etruschi, di indicare il passaggio di ogni anno con
l'affissione di un chiodo nel tempio della dea Northia (Livio VII 3.7),
induce a intendere che gli Etruschi avessero ancora la chiara memoria
storica della data del loro arrivo in Italia, data che costituiva
l'inizio di quella usanza e che ovviamente essi avevano grande cura di
ricordare. Questa loro usanza invece non avrebbe avuto alcuna ragione
di esistere, se fosse stato vero che gli Etruschi si trovavano in
Italia da sempre.
Invece, ad iniziare dagli anni Cinquanta del secolo scorso fino al
presente, fra gli archeologi italiani regna sovrana questa tesi: «Non
esiste il problema dell’origine degli Etruschi, dato che essi erano
esclusivamente di “formazione” italiana, erano cioè “autoctoni”. E
tutto questo si sostiene da parte degli archeologi, nonostante che
alcuni linguisti stiamo da anni dimostrando numerose connessioni
esistenti fra la lingua etrusca da un lato e alcune lingue dell’Asia
Minore dall’altro!
12) A iniziare dal 1947, col suo libro L'origine degli Etruschi
(Roma 1947), Massimo Pallottino, capo della scuola archeologica
italiana, non ha più voluto che si parlasse della "origine degli
Etruschi" e di fatto almeno qui in Italia non se ne è più parlato per
numerosi decenni. Secondo lui, quello della "origine degli Etruschi"
sarebbe un problema privo di senso, come lo sarebbe quello della
"origine dei Francesi". L'ethnos etrusco - egli ha ragionato - è
nato e si è sviluppato, cioè si è "formato" soltanto in Italia, proprio
come la civiltà francese è nata e si è sviluppata, cioè "formata"
soltanto in Gallia.
Questo concetto della "formazione della civiltà etrusca" avvenuta
soltanto in Italia, analogo a quello della "formazione della civiltà
francese" avvenuta soltanto in Francia, è stato un punto assolutamente
fermo e indubitabile, il quale ha condizionato dal 1947 in poi quasi
tutti gli studi relativi alla civiltà etrusca e perfino quelli relativi
alla lingua etrusca. Eppure con un po' di attenzione si sarebbe potuto
vedere che quel concetto di "formazione" aveva un suo punto debole: era
sufficiente osservare che, pur concedendo che "la civiltà francese si è
formata soltanto in Francia", niente vieta a uno studioso di mettersi
il problema delle "origini" degli elementi che hanno contribuito alla
formazione della civiltà francese, e precisamente il problema della
"origine dell'elemento latino" che proveniva dall'Italia e il problema
della "origine dell'elemento franco" che proveniva dalla Germania. In
maniera analoga, pur concedendo che "la civiltà etrusca si è formata in
Italia", niente vieta a uno studioso di mettersi il problema della
"origine dell'elemento orientale" che è presente in maniera evidente e
massiccia nella civiltà etrusca (addirittura è stato giustamente
chiamato "l'Orientalizzante") e che proveniva dalla Lidia nell'Asia
Minore.
In conseguenza di ciò la scuola archeologica italiana ha sempre
insistito sulla perfetta continuità che si constaterebbe tra l'antica
cultura villanoviana dell'Italia centrale e la successiva civiltà
etrusca, mentre l'illustre storico francese della civiltà antica Jean
Bérard (La Magna Grecia - storia delle colonie greche dell'Italia meridionale, Torino 1963, pg. 493) ha fatto osservare che "La
civiltà etrusca dell'età storica si afferma in opposizione a quella
villanoviana nel cui seno si sviluppa; e nulla è più diverso e
contrastante dalle povere tombe a incinerazione del periodo
villanoviano delle ricche camere funerarie del periodo etrusco vero e
proprio".
D’altronde anche un altro illustre studioso francese, profondo
conoscitore e illustratore della civiltà etrusca, Jacques Heurgon, ha
sostenuto, sia pure in maniera molto diplomatica, la tesi dell’origine
orientale degli Etruschi (cfr. La vie quotidienne chez les Étrusques, Paris 1961; Rome et la Méditerranée occidentale jusqu'aux guerres puniques, Paris 1969).
13) Esistono abbastanza numerose e abbastanza evidenti connessioni
culturali e linguistiche che legano con l’Asia Minore od Anatolia anche
la antica civiltà dei Sardi Nuragici della Sardegna, quella che è stata
la prima “civiltà” dell’Italia, dato che ha preceduto quella degli
Etruschi di ben quattro secoli (XIII-IX avanti Cristo). Esistono
inoltre alcuni accenni di antichi storici greci, dai quali emerge che
pure i Sardi Nuragici provenivano – proprio come gli Etruschi – dalla
già citata Lidia, nell’Asia Minore. Ed è pure assai probabile che i
Sardi abbiano derivato la loro denominazione e quella della loro terra Sardò-Sardinia dal nome di Sardis o Sardeis, capitale della Lidia.
Connessioni culturali tra i Sardi Nuragici e gli Etruschi erano già state ritrovate e indicate da parecchi decenni: tholos
o “cupola” di tombe etrusche simile a quella delle torri nuragiche;
navicelle funerarie – di lontana origine egizia - ritrovate in tombe
etrusche, del tutto simili a quelle nuragiche; statuine in bronzo
etrusche di sacerdoti, sacerdotesse, fedeli e animali simili a quelle
nuragiche, armi etrusche simili ad armi nuragiche.
Queste strette connessioni culturali fra gli Etruschi e i Sardi
Nuragici trovano la loro spiegazione nella importante circostanza che
la Sardegna era ed è a un tiro di schioppo dall’Etruria. Per gli
abitanti delle città etrusche della costa tirrenica – che erano quelle
più antiche – Cerveteri, Tarquinia, Vetulonia e Populonia era molto più
facile, veloce e sicuro raggiungere la Sardegna che non le città
etrusche del Mar Adriatico, Spina e Adria.
E nonostante quest’altra “ovvietà” delle strette ed evidenti
connessioni culturali e di vicinanza geografica, quando con la mie
prime opere La lingua dei Sardi Nuragici e degli Etruschi e Lessico Etrusco-Latino comparato col Nuragico
(Sassari 1981, 1984), segnalai l’esistenza anche di connessioni
linguistiche fra i relitti della lingua dei Sardi Nuragici con quella
degli Etruschi, gli archeologi italiani non si dettero la briga di
prestare alcuna attenzione. Non obiettarono nulla, ma stesero
sull’argomento un velo di totale silenzio.
Soltanto un archeologo dell’Università di Perugia intervenne con un
suo articolo pubblicato in un quotidiano romano per “distruggere” il
mio libro. Gli replicai subito dimostrandogli che non aveva nessuna
competenza per giudicare un libro di linguistica storica e che – assai
peggio – non lo aveva neppure letto! Qualche anno dopo lo stesso
personaggio ha ritenuto di intervenire sulla mia traduzione della Tabula Cortonensis,
dimostrando però di nuovo totale incompetenza linguistica, tanto da non
conoscere la differenza tra il “genitivo soggettivo” e il “genitivo
oggettivo” (cfr. I Grandi Testi cit., Capo 3°, pg. 129).
14) Nella tesi pregiudiziale unanimemente e acriticamente accettata
dagli archeologi italiani, secondo cui “l’etrusco è una lingua non
comparabile con nessun’altra” era ed è implicita l’altra tesi secondo
cui “l’etrusco non è una lingua indoeuropea”.
È del tutto evidente e ancora “ovvio” che per affrontare questo
argomento sulla indoeuropeità o meno della lingua etrusca occorre
possedere una molto ampia e molto profonda preparazione glottologica,
cioè di “linguistica storica e comparativa”; cosa che evidentemente non
appartiene affatto alla preparazione scientifica di un archeologo. E
ciò nonostante la tesi o la pregiudiziale della “non-indoeuropeità
dell’etrusco” è forse quella più ampiamente e più comunemente sostenuta
e ripetuta dagli archeologi italiani.
Eppure non sono pochi né poco autorevoli i glottologi che invece
hanno sostenuto la tesi della indoeuropeità dell’etrusco: W. Corssen,
S. Bugge, I. Thomopoulos, E. Vetter, A. Trombetti, E. Sapir, G.
Buonamici, E. Goldmann, P. Kretschmer, F. Ribezzo, F. Schachermayr, A.
Carnoy, V. I. Georgiev, W. M. Austin, R. W. Wescott, F. C. Woudhuizen,
F. Bader, F. R. Adrados, ecc. ed a questa schiera si unisce anche
l'autore del presente studio.
Premetto che è abbastanza noto che la scoperta dell’unità
linguistica indoeuropea è stata storicamente e primariamente conseguita
per la constatazione che i numerali della prima decade di molte lingue
risultano corrispondersi fra loro. Ebbene, per parte mia ho perfino
dimostrato che per l’appunto anche quasi tutti i numerali etruschi
della prima decade corrispondono a quelli di altre lingue indoeuropee
(cfr. M. Pittau, Tabula Cortonensis - Lamine di Pirgi e altri testi etruschi tradotti e commentati cit., capo 5 ; che si può leggere anche nel mio sito www.pittau.it).
Oltre a ciò io ho avuto modo di mostrare e sottolineare la
straordinaria e piena convergenza che si constata fra la lingua etrusca
e altre lingue indoeuropee sui seguenti punti (LEGL § 5):
a) congiunzione enclitica etrusca –c, –ca, –ce uguale a quella sanscrita –ca e latina –que (Senatus Populus-que Romanus) (LEGL § 110).
b) morfema –s del genitivo singolare etrusco uguale a quello del latino, del greco e di altre lingue indoeuropee (LEGL § 48).
c) morfema –i del dativo etrusco uguale a quello del latino e del greco (LEGL § 57).
d) desinenza del participio presente etrusco -nth (AMINTH «Amante», CLEVANTH «offerente», NUNTHENTH «orante») uguale a quella -nt- del latino e del greco (LEGL § 124).
e) desinenza del preterito etrusco –ke, -ce uguale a quello greco –ke: etr. TURICE, TURUCE, TURCE, TURKE «donò, ha donato» da confrontare col greco dedórheke «donò, ha donato».
f) desinenza del locativo etrusco -t(e), -t(i), -th(e), -th(i) uguale a quello greco, anche se raro, óikothi «in casa», thyrhethi «alla porta, fuori», Ilióthi «in Ilio» (LEGL § 59).
g) avverbio etrusco TUI «qui» uguale a quello greco tyi «qui» (LEGL § 109).
Potrebbero queste sembrare convergenze di scarsissimo rilievo, data
la ridottissima consistenza fonetica di quei morfemi e di questo
avverbio, ma al contrario si deve rimarcare la loro forte consistenza
dimostrativa, posto che, per la “norma dell’economia” che – come è noto
– gioca un ruolo enorme anche nel campo delle lingue, i fatti
linguistici più frequenti e cioè più importanti sono quelli che hanno
la struttura fonetica più breve e semplice (LEGL § 48).
E soprattutto si deve rimarcare che quelli citati sono fatti
linguistici relativi non al lessico, in cui i prestiti tra le lingue
sono molto frequenti, bensì alla “morfologia”, in cui i prestiti sono
rarissimi.
Dunque anche quest’ultima e assai consistente “ovvietà linguistica”
è stata ignorata e contraddetta dagli archeologi italiani, che
presumono di essere in grado di trattare anche di problemi della
“lingua etrusca”: la loro preparazione scientifica di fondo non
consente loro di intervenire per nulla sulla questione della
indoeuropeità o meno della lingua etrusca.
15) Con una così lunga serie di “ovvietà” relative a specifiche
competenze scientifiche, ad esatti procedimenti linguistici, -
metodologici ed ermeneutici - ignorate, trascurate e contraddette, era
logico e necessario che la scuola archeologica italiana, monopolizzando
la lingua etrusca, finisse col determinare quello che indubbiamente è
stato il più grande “fallimento filologico-linguistico” che ci sia mai
stato in tutta la storia delle discipline filologiche e linguistiche,
ad iniziare dalla filologia alessandrina fino al presente. E si tratta
di un “fallimento” che va avanti ormai da 70 anni e neppure accenna a
diminuire!
In questo preciso modo e per questi esatti motivi si spiega un fatto
che nell'apparenza poteva finora riuscire del tutto inspiegabile:
lingue antiche scoperte in tempi recenti e documentate con scarse e
poco consistenti iscrizioni o brani di iscrizioni, nel giro di qualche
decennio sono state dai linguisti decifrate, tradotte e classificate. È
il caso delle seguenti lingue: sumero, ittito, hurritico,
urartaico, elamitico, ugaritico, licio, lidio, frigio, ecc. Invece rispetto alla lingua etrusca, documentata da circa 11 mila iscrizioni e anche con testi abbastanza consistenti come il Liber linteus e la Tabula Capuana,
i progressi ermeneutici e di studio effettuati dalla scuola
archeologica italiana in questi ultimi decenni sono stati quasi
impercettibili. L’enormità di questo “fallimento culturale” è proprio
direttamente proporzionale al grande potere politico, organizzativo ed
economico che gli archeologi italiani posseggono e di cui si servono
ampiamente.
Sull’argomento si deve osservare che gli archeologi – soprattutto
quelli italiani – hanno un potere politico, organizzativo ed economico
enorme, che nessun’altra categoria di studiosi di discipline
umanistiche, filologi linguisti storici sociologi antropologi ecc.,
neppure lontanamente si sogna di possedere.
Innanzi tutto gli archeologi hanno un potere politico enorme, dato
che, con strumenti giuridici alla mano, sono in grado di bloccare o
trasformare piani regolatori di città, impedire o bloccare costruzioni
private e pure di pubblica utilità, far deviare ferrovie, strade,
autostrade e aeroporti, dichiarare autentici o falsi reperti che in
conseguenza acquistano o perdono valore. E per questa ragione gli
archeologi sono temuti, rispettati, vezzeggiati e aiutati dai politici
e dagli amministratori pubblici di qualsiasi livello.
In secondo luogo, siccome gli archeologi sono i “custodi” di una
notevole parte del “patrimonio archeologico-artistico” dell’Italia –
che costituisce anche la sua più grande e più vera ricchezza economica
– per questo loro ufficio essi ottengono grandi finanziamenti dallo
Stato, dalle Regioni, dalle Province, dalle Comunità Montane, dai
Comuni e dalle Banche, finanziamenti coi quali essi sono in grado di
organizzare, con totale loro autonomia e discrezione, scavi sul
terreno, restauri di monumenti, mostre, convegni e stampare tutte le
pubblicazioni e le riviste scientifiche che vogliono.
Nel 1985 è stato organizzato nelle aree dell’antica Etruria, Toscana Umbria e Lazio settentrionale, il II Convegno Internazionale Etrusco (il
I era stato organizzato nel lontano 1929), al quale hanno partecipato
ben 600 convegnisti provenienti da tutte le parti del mondo e in
occasione del quale sono state aperte in differenti città grandi e
belle mostre e stampata una serie di belle pubblicazioni sui vari
aspetti della civiltà etrusca. Per la organizzazione di quel grandioso
Convegno sembra che coi contributi finanziari dello Stato, delle
regioni della Toscana, dell’Umbria, del Lazio e dell’Emilia Romagna,
dei Comuni di varie grandi città, della Fabbrica Italiana Automobili
FIAT e della banca Monte dei Paschi di Siena, si sia raggiunta la somma
di 4 miliardi di lire italiane (si è pure parlato della somma di 14
miliardi, ma io non la credo esatta). In ogni modo si è trattato di una
gran bella somma, con la quale non era poi tanto difficile organizzare
un così grandioso convegno.
Per la stessa grande disponibilità di mezzi finanziari che
amministrano, gli archeologi hanno un facilissimo accesso in tutte le
grandi case editrici, le quali d’altronde sono sempre disponibili a
pubblicare libri pieni di belle fotografie e di numerosi disegni dei
monumenti archeologici. E per questo medesimo motivo gli archeologi
hanno facilissimo accesso nei quotidiani e nei rotocalchi, con
interviste concesse e con articoli stesi per la larga divulgazione.
Oltre a ciò nelle case editrici gli archeologi sono anche in grado
di bloccare e boicottare pubblicazioni che non siano di loro
gradimento. Espongo un caso personale: un noto e importante editore di
Firenze si era dichiarato disponibile e felice di pubblicare la mia
opera Dizionario della Lingua Etrusca (Sassari 2005), che
comprende analizzato e spesso tradotto l’intero patrimonio lessicale
della lingua etrusca che è stato rinvenuto e pubblicato sino all’anno
2005; e si trattava del primo e unico vocabolario generale della lingua
etrusca che esistesse. Di questo mio Dizionario della Lingua Etrusca
Riccardo Ambrosini, professore di Linguistica nell’Università di Pisa,
nonché Presidente della «Accademia Lucchese di Scienze, Lettere e
Arti», nella quale mi aveva chiamato per tenere due conferenze, una
sulla Tabula Cortonensis e l’altra appunto sul mio Dizionario, mi aveva scritto da San Lorenzo di Moriano in data 18.11.2005: «Carissimo Pittau, ho appena ricevuto il Tuo stupendo Dizionario della Lingua Etrusca
e mi sono affrettato a leggerne alcune pagine che attraevano la mia
immediata curiosità. Non posso non congratularmi con Te per la sapiente
disposizione del materiale e per la prudenza di alcune proposte, che
ben sottolinei nella chiarissima introduzione. (…) Complimenti
vivissimi e, scusami una sentita invidia per questo Tuo magnifico
lavoro, e, insieme con questi, i ringraziamenti più vivi e i saluti più
cordiali. Tuo [firmato]». Senonché l’editore fiorentino fu dissuaso dal
pubblicare quel mio Dizionario almeno da alcuni membri
dell’”Istituto di Studi Etruschi ed Italici” di Firenze, scusandosi poi
con me col dire che con quell’Istituto egli aveva rapporti continui ed
organici...
Infine quelli che sono i “beni archeologici e artistici pubblici”,
cioè appartenenti alla Nazione italiana, i direttori dei vari musei
archeologici riescono spesso a renderli “privati”, tralasciando di
mostrarli ad altri studiosi e adoperandoli invece per le loro
pubblicazioni personali. Una dozzina di anni or sono il Soprintendente
ai Beni Archeologici della Toscana, essendo entrato in possesso dei
sette frammenti della ormai famosa Tabula Cortonensis, li tenne
nascosti per più di cinque anni, per metterli finalmente in
circolazione con una sua pubblicazione personale (cfr. M. Pittau, Tabula Cortonensis - Lamine di Pirgi e altri testi etruschi tradotti e commentati, Sassari 2000, pgg. 41-42).
Ebbene, con tutto questo loro immenso potere politico,
amministrativo ed economico non è stato difficile agli archeologi
italiani accaparrarsi, monopolizzare e governare pure la lingua
etrusca: essi sono in grado di organizzare e governare tutti i convegni
sulla lingua etrusca che vogliono, scegliere gli oratori ufficiali,
ovviamente escludendone quelli da loro non graditi, stampare
pubblicazioni relative alla lingua etrusca, accettare oppure respingere
gli studi linguistici dalle loro riviste – in particolar modo quella
ricchissima di mezzi che sono gli “Studi Etruschi” di Firenze.
Infine – last but not least – gli archeologi ovviamente governano a
loro totale piacimento, oltre che la assegnazione delle Soprintendenze
Archeologiche regionali, le cattedre di Etruscologia nelle
Università di tutta Italia, cattedre nelle quali essi si prefiggono e
si illudono di saper insegnare pure la lingua etrusca, anche con
l’ausilio didattico di alcuni manualetti, che io, autore pure della
fortunata opera La Lingua Etrusca - grammatica e lessico (Nùoro 1997; sigla LEGL),
non esito a definire “indecorosi”, dato che si limitano ad esporre
nozioncine di lingua etrusca risalenti alla metà del secolo scorso.
16) A questo punto sorge spontanea e doverosa la domanda: come si
sono comportati in questo settantennio e come si comportano attualmente
rispetto alla lingua etrusca i glottologi o linguisti propriamente
detti?
Qualche linguista si è allineato del tutto alle posizioni degli
archeologi ed è stato da questi accolto bene in tutte le loro
iniziative, convegni, pubblicazioni e riviste, e assieme con essi
condivide la gloria e il potere.
Qualche altro linguista ha tentato di entrare nel mondo della
etruscologia italiana, ma con tesi linguistiche non perfettamente
allineate con quelle degli archeologi, col risultato però che non ha
avuto fortuna e si è dovuto ritirare dal campo.
Comincio col citare il caso del glottologo Marcello Durante, autore dell’importante studio Considerazioni intorno al problema della classificazione dell'etrusco
- "Parte Prima" (in "Studi Micenei ed Egeo-Anatolici", VII, 1968, pgg.
7-60, nel quale connetteva la lingua etrusca con antiche lingue
anatoliche e nel quale c'era l'annunzio di una successiva "Parte
Seconda". Avendo un giorno chiesto al collega Durante quando sarebbe
comparso il secondo studio da lui già preannunziato, mi rispose, molto
amareggiato, che aveva rinunziato del tutto a quella sua idea dopo che
aveva constatato la totale indifferenza con cui gli archeologi italiani
avevano accolto il suo primo studio...
E assoluta indifferenza hanno manifestato gli archeologi italiani
per uno studio di un altro glottologo dell’Università di Pavia,
specialista in lingue anatoliche, Onofrio Carruba, L'origine degli Etruschi: il problema della lingua
(Atti VI Convegno Internazionale di Linguisti, Milano 1974 Brescia
1977, pgg. 137-151), il quale, pure lui, connetteva l'etrusco anche con
antiche lingue dell'Asia Minore. Anzi, mentre mi è capitato di vedere
citato qualche volta da parte degli archeologi italiani il citato
studio di Marcello Durante, su quello del Carruba è calato un silenzio
totale. E se ne capisce il motivo di fondo: il Carruba aveva osato
trattare esplicitamente il tema della origine degli Etruschi, che era un tema proibito e scomunicato dalla scuola archeologica italiana...
Né migliore sorte hanno avuto in epoca successiva altri linguisti
che hanno riportato la lingua etrusca ancora al quadro delle antiche
lingue dell'Asia Minore: Vladimir I. Georgiev, La lingua e l'origine degli Etruschi (1979), e Lydiaka und Lydisch-Etruskische Gleichungen (1984); e Francisco R. Adrados, Etruscan as an IE Anatolian (but not Hittite) Language
(1989) (in "The Journal of Indo-European Studies", Washington 1989,
Monograph no. 5, pgg. 363-383.
E infine il sottoscritto, glottologo che ha scritto più di tutti
sulla lingua etrusca (12 libri e un centinaio di studi) e che nella sua
ricerca e analisi ha coinvolto l’elevato numero di circa 1.000
appellativi, 2.500 antroponimi e 1.600 testi etruschi: totale
indifferenza da parte degli etruscologi-archeologi, assoluto silenzio
da parte loro!
Però c’è da segnalare e da deprecare che in generale i linguisti,
italiani e stranieri, sono stati e si sono tenuti da parte rispetto
alla lingua etrusca, ovviamente perché intimoriti dallo strapotere
degli archeologi e dall’ostracismo da loro esercitato nei confronti
degli “eretici”.
Ma probabilmente ancora più grave è il “fallimento culturale”
relativo alla lingua etrusca, provocato dagli archeologi, rispetto alla
grande massa di lettori e di appassionati, che in Italia e in Europa
sono numerosissimi: per effetto della tesi pregiudiziale degli
archeologi circa il fatto che “l’etrusco è una lingua non comparabile
con nessun’altra”, corre nel grande pubblico intellettuale e perfino
fra gli insegnanti di ogni scuola, ordine e grado, il grave pregiudizio
secondo cui la “lingua etrusca è tutta un mistero”, “la lingua etrusca
è una “sfinge impenetrabile”, della quale non si è finora riusciti a
“decifrare” assolutamente nulla…
E questo pregiudizio che corre nel grande pubblico intellettuale se
ne trascina un altro addirittura più grave e molto pittoresco: nella
stampa quotidiana, nei rotocalchi, nelle trasmissioni delle varie
televisioni, almeno ogni semestre si fa avanti un genialoide
“scopritore della chiave di decifrazione dell’etrusco”. Ed egli si gode
per alcuni mesi la fama e la gloria mediatica, fin tanto che questa
viene oscurata dopo un po’ di tempo da un nuovo “scopritore della
chiave di decifrazione dell’etrusco”….
Questi sono dunque i risultati effettivi del monopolio e del governo
che della lingua etrusca ha fatto una categoria, anzi una “casta” di
individui tanto potenti, che riescono a far passare per “competenza
linguistica” e a millantarla quella che invece non lo è affatto!
Massimo Pittau
Professore Emerito dell’Università di Sassari
2012
Nota bene: i necessari riferimenti bibliografici si possono trovare nello scritto dello stesso Autore, 50 anni di studi sulla lingua etrusca in Italia.
ON ETRUSCAN LANGUAGE
ignored and contradicted obviousnesses
and the philological and linguistic failure
In the last 70 years, in Italy, with regard to Etruscan language, several and authentic linguistic "obviousnesses"
have been ignored, neglected and contradicted. Namely, some very simple
and even obvious procedures and methods, that are usually applied every
day in the study of any language, belonging to any language family, by
all glottologists and historical linguistics in particular, have been
ignored and not applied.
Ignorance and the failed application of such methodological
"obviousnesses" and hermeneutical or interpretative procedures in the
study of Etruscan language depended on a certain and clear fact:
in the last 70 years the study of Etruscan language has been
gained, monopolized and ruled by the "Italian archaeological school", that
is, by the archaeologists of the country and of the geographical area
exactly where the great "Etruscan civilization" flourished.
1) The first "obviousness" which was ignored, neglected and
contradicted by Italian archaeologists is the following: no man of
culture exists, who does not know and understand that between
archeology on one hand and glottology or historical and comparative
linguistics on the other hand there is an ocean of differences, both
regarding the subject of study and the methods that are employed. Thus
any and all intervention that any archaeologist tries to make regarding
the Etruscan language is completely illegitimate, over-ambitious and
destined to failure.
And exactly from the fact that this first main and prejudicial
"obviousness" on the immense difference that exists between archeology
from one hand and glottology or comparative and historical linguistics
on the other hand, all the other many "obviousnesses", which have been
ignored and contradicted by archeologists in their study of the
Etruscan language derived.
2) Of the Etruscan language more than 11 thousand inscriptions are
to be found, with documents of about 8,500 words, which differ one from
the other. It should be reminded that the document content and thus the
hermeneutical or interpretative value of these 11 thousand inscriptions
at first appeared greatly reduced to the scholars from the very
beginning, when they realized that those inscriptions are mainly
funeral and so obviously short and repetitive. On the other hand, even
if this serious initial difficulty exists, the figures that have been
quoted are of course enormous and this big advantage, just two very
known ancient languages, Greek and Latin, can have.
And then, with the methodological procedure of "internal
comparison", the reciprocal comparison of different 8,500 words - if
this was really and completely carried out - could surely lead to the
"decoding" of the meaning of several Etruscan words.
I admit that such a method of "internal comparison" took place, but
to a very reduced extent and led to the decoding of just some tens of
words, which are continuously recurrent in the Etruscan inscriptions;
MI «I, me», CLAN «son», CLENAR «children», SEX «daughter», PUIA «wife»,
LUPU «dead», LUPUCE «died, is dead», AIS, EIS «god», AISER, EISER
«gods», SUTHI, SUTI «tomb, grave», the numerals TU, THU «one», ZAL,
(E)SAL «two», CI «three», MAC, MAX «five», SEMPH «seven, CEZP «eight»,
NURPH «nine», SAR, ZAR «ten», ZATHRUM «twenty», CIALXL «thirty», SEALXL
«sixty» and some other tens of words.
So, the procedure of the "internal comparison" among the 8,500
Etruscan words we know has been applied in the past 70 years by
archologists, who are the monopolizers of the Ertruscan language, only
to a very reduced extent. In particular they took care not to insert in
the "internal comparison" also the big number of Etruscan anthroponyms
that are to be found (pre-names, aristocratic names and nick names or
Latin cognomina), because they are completely convinced that
these have no value in order to understand the meaning of the single
Etruscan words. In fact, in neglecting to examining the many Etruscan
anthroponims as well, the archeologists - as I will say further on-
completely failed.
3) But even worst is the non "external comparison" of the 8,500
Etruscan words we have with other words of ancient languages, and in
particular still with Greek and Latin.
Unfortunately "numbers", notwithstanding and despite their
precision, are easily forgotten. Both in Greek and in Latin about more
than one hundred thousand words are possibly known, that is, all
together, they are more than two hundred thousand; and this is a huge
number which could offer linguists a very rich field of research and
comparison.
Having said that, considering that Greek, Latin and Etruscans lived
together in the same geographical area for several centuries, it is
absurd to believe that many words of Etruscan language, which are
unknown in their semantic value or "meaning", cannot be paralled by the
2,000 Greek and Latin words, the meaning of which is instead completely
known. They will be either Greek and Latin words which entered the
Etruscan language otherwise Etruscan words which were introduced in
Greek or in Latin language. (It has to end to believe that a number of
Greek and Latin words have entered in Etruscan language and no Etruscan
word has entered the Greek and Latin; events of communication and
exchange between one civilization and another never have a 'one and
only way!).
And then the logical consequence of this special and successful
general linguistic situation would be as follows: the "meaning" of the
Greek and Latin words which is completely known will be the "meaning"
of the corresponding Etruscan words as well. Thus the "meaning" of many
Etruscan words would have been at last "deciphered" and discovered.
4) How was it possible that the Italian archaeologists have ignored
and did not apply this important and necessary and so "obvious" process
of "external comparison" between the Etruscan one hand and the Greek
and Latin on the other? It was possible just because they have accepted
totally uncritically the claim that "The Etruscan language is not
comparable with any other language”.
This amazing thesis was for the first time supported by the Greek
historian Dionysius of Halicarnassus (I 30, 2), who had lived a few
decades before Christ; but he was not a glottologist or a linguist,
also on the ground that it was necessary that from his time 1,800 years
passed before the birth and affirmation in Europe of glottology as "the
historical and comparative study of languages”.
In fact, the argument that "the Etruscan language is not comparable
with any other" would scientifically be justified only on one
condition: that the Italian archaeologists have proven their knowledge
of all the languages of all the peoples who have lived in the
past around the Mediterranean basin, and knowing them all to perfection
archaeologists could eventually conclude with their negative thesis.
But the Italian archaeologists have never demonstrated that they have
an extensive and in-depth expertise in historical linguistics, and for
this reason their theory of "incomparability of the Etruscan language
with any other" was and is entirely without foundation. On the other
hand, I am of the opinion that not even a proper linguist who possessed
the vast and in-depth expertise of historical linguistics existed,
which is why even any linguist would be able to speak and motivate this
thesis.
Actually, when archaeologists have taken as good and they have
disclosed their thesis by which '"Etruscan language is not comparable
to any other," not only they went against another clear and strong
"obviousness", but they even invited and imposed the linguist who
wanted to participate in their meetings and to collaborate in their
journals not to make use of what is the first and most important tool
of linguistics, precisely the "comparison" .
Of course it has happened that almost all linguists, Italian and
foreigner as well, did not accept this judgment and imposition of
Italian archaeologists, but they paid their refusal with their total
exclusion from the major events that archaeologists have organized from
time to time also on the topic of the Etruscan language.
5) But the sentence pronounced and executed by the archaeologists of
the method of "comparison" in the study of the Etruscan language
logically dragged another one: the condemnation of the "etymology" or
of "etymological method". These are words which are condemned,
prohibited, execrated at conferences and in journals of archaeologists
relating the Etruscan language.
And instead I first believe that they are committing a big mistake
not making a necessary and important distinction between the language
"comparison" on the one hand and the "etymology" on the other. If I
compare or connect the Latin/Etruscan gloss Amphiles, Ampiles «May», i.e. «month of the vine leaves», "with the Greek word ámpelos «vine, vineyard»,
"I simply establish a" comparison ", but if I said that the Etruscan
name "derives" from the Greek one or the contrary, then I would do an
"etymology," which means and implies precisely the "derivation".
In the "comparison" that I put forward among the 8,500 Etruscan
words we have and which are unknown with 2,000 Greek and Latin that we
have and do know, is already very important to stop at this stage,
since it often allows us to "decipher" or just capture the "meaning" of
Etruscan vocabulary. But no one can force a linguist not to proceed
further, not to use the other important method of his research, "the
etymological method". And in the example above no one can deny a
linguist to envisage the thesis that the words Etruscan Amphiles, Ampiles «May», «month of the vine leaves» the Greek word ámpelos «vine vineyard», lat. pampinus «vine leaf» and (proto)Sardinian s'ampilare
«the climbing of the vine too», "derive", independently of one another,
by a word of viticulture in the "Mediterranean substratum and
pre-Indo-European".
In fact, demanding a linguist who wants to take an interest in the
Etruscan language, not to use the "comparison" or the "etymology" would
correspond to expect that a bird flies without using its wings.
And this is another "obviousness" ignored and contradicted by
archaeologists: the linguist has the right and the duty to perform both
the "comparison" of words she/he studies and their "etymology" or
origin.
6) On the other hand it is a fact that the Italian archaeologists
unanimously claim that regarding Etruscan language "there is no problem
of deciphering", as it had already been "deciphered completely”. But
even with this thesis they do not realize they have a very improper and
partly wrong concept of "linguistic deciphering”.
For an ancient language of which only written documentation are
available, i.e. without any evidence in today's tongues, in fact there
are two different "deciphering", or rather, two different levels of
deciphering. The first one is to "decipher the alphabetical letters "
or graphemes, that is, in being able to turn them into oral sounds, or phonemes,
that is, in being able to pronounce them, and this first step of
deciphering of course has already been made for the Etruscan language,
which, by virtue of the use that the Etruscans made of Greek alphabet,
is now almost perfectly and totally readable or pronounceable. But the
real and most important "deciphering" comes later: from the graphemes
it is easy to understand what is the actual meaning they carry and
conceal, that kind of deciphering according to which from the
"notation" you can go to their "factual or conceptual meanings”.
It is clear that the word and the concept of "deciphering"
originates from the practice of secret messages that are encrypted and
transmitted with "ciphers". Well, in an office of military deciphering,
in which I worked during the Second World War, our first task was to be
able to "catch" exactly the "ciphers" of the encrypted messages of the
enemy, but the real decoding of these messages was made only later,
when from the ciphers we caught we could get the message they carried
and concealed, that is, when we could go from the signs which were encrypted to the facts or concepts which were meant and transmitted.
Well, despite the fact that the Italian archaeologists deny it
firmly, the problem of the deciphering the Etruscan language exists
till now and to a large extent. We read and pronounce in an almost
entirely sure manner all the words that appear in Etruscan
inscriptions, but, apart anthroponyms, we do not know yet the exact
meaning of hundreds of Etruscan words.
7) Another "obviousness" which is ignored and contradicted by
Italian archaeologists is related to the initial choice of study
material. You do not need great experience in language studies to know
and understand that the inscriptions of an ancient language that is
unknown are all the more easily to translate the more they are long. As
a matter of fact in long inscriptions the chances of both the "internal
comparison" and the "external comparison" of words are much more
numerous than in the short inscriptions. In addition, in the long
inscriptions amendments of errors of the ancient scribe are also
possible, while in the short inscriptions such amendments are almost
always impossible. And also, in the short inscriptions - just for
reasons of brevity - abbreviations are frequently used, and they are
often indecipherable because they were made at random by different
scribes. What's more the discovery of the "falsity" of a long
inscription is vastly easier than the discovery of the "falsity" of a
short inscription.
This new "obviousness" of the study commonly used of a long than of
a short text should have forced archaeologists to consider first of all
the long Etruscan texts that are available, that is the Liber linteus the Mummy of Zagreb, which, several repetitions excluded, presents more than 500 words the Tabula Capuana which has about 190, the Cippo of Perugia with about 90, the Tabula Cortonensis
with about 60; instead archaeologists have thrown themselves into the
shorter Etruscan inscriptions. Some of them were certainly easy to
interpret and translate, while others have proved immediately of
difficult interpretation and translation.
It would be too long and also useless to show the long and intricate
disputes that archaeologists have woven around some short and very
brief Etruscan inscriptions, for which there was and still there is
also the possibility that some mistakes made by the ancient scribe
occurred and that some of them is even "false".
On the other hand, in the field of language, it is easy to find that
in general messages the more short, the more they run the risk of being
ambiguous or at least poorly understandable.
8) The lack of significant relevance of the quite rich Etruscan
linguistic material which have arrived at us is also derived from the
fact that much of the material consists of a large number of
anthroponyms (forenames, noble and nicknames) in comparison with a
lexical material (titles, first names, numerals, verbs, adverbs,
prepositions and conjunctions) which is much more scarce.
This serious difficulty represented by the type of Etruscan
linguistic material which is in our possession cannot and should not be
denied, but there was a major operation should be carried out, but this
has not even been attempted by archaeologists: it is true that
anthroponyms at an initial analysis look like "opaque" in the sense
that they indicate or "mean" to the listener or reader only single men
and single families, but true linguists know that, when analysed
properly, even anthroponyms can become "transparent" in the sense that
they may also reveal their original "meaning" too. Originally, also
anthroponyms were "titles" as well, consisting almost always of nouns
or adjectives used as nouns, even in their diminutive or augmentative
form, which identified either a piece of personal data or a feature,
physical or moral, of the individual who was named. For example,
Italian surnames Cremona, Ferrara and Verona at first indicated the origin of a family from one of those cities, the surnames Bianchi, Neri and Rossi
indicated, with the plural of the family, that their people were either
of "white" or "black, dark" or "red" complexion; the surnames Forti, Gagliardi, Onesti indicated a moral quality of their holders, the surnames Medici, Mercante, Ferrari indicated their profession, the Etruscan forename Larth meant "commander, prince" (Cicero, Phil., 9.4; Livio, IV.17.1) and the other Velthur "vulture", and so on.
So anthroponyms after an initial "opacity" properly investigated by
the linguist, eventually also offer a "transparency" of lexical value.
And then, even the large number of anthroponyms documented by Etruscan
inscriptions, if they were analysed according to the rules and
procedures of linguistics, would end by offering many important lexical
elements and ideas related to the Etruscan language.
9) Among the peoples of the Italian peninsula, with whom the
Etruscans came into contact, the closest one were the Romans. Between
the VIII and VI century, Etruscans and Romans lived almost in a close
symbiosis. It must be noted that the river Tiber was not considered at
that time in the centre of Latium, but it was considered the boundary
between the Romans and the Etruscans. For this reason, Rome itself was
not considered at the centre of Latium Vetus, but it was precisely considered a border town between Etruria and Latium. So much so that the very name Rome was probably Etruscan, namely a variant of the title ruma
"breast", indicating the great "breast" or loop that makes up the Tiber
at Tiber Isle and that the same name of the river was most likely
Etruscan. Not only that, but at the time of the monarchy in force in
Rome, the reigning dynasty of the Tarquins was of Etruscan nationality
and also had held the city not just for some tens of years as it is
commonly thought and said, but for more than a century. Even the most
ancient inscriptions that have been found in Rome are in Etruscan
language and alphabet and not in Latin.
Well, during the long and close contacts that the Etruscans and the
Romans had especially in the age of the monarchy, it is clear and
certain that several exchanges of words between their languages and
especially of anthroponyms occurred. This has been brilliantly
demonstrated by the old but still important and brilliant work of
Wilhelm Schulze Zur Geschichte Lateinischer Eigennamen (1904), who showed a wide correspondence of many Latin anthroponyms with Etruscan ones. In my recent work Dizionario della Lingua Etrusca (Sassari
2005) I think I have - by virtue of the successive discoveries of new
Etruscan inscriptions - greatly expanded the number of those matches,
reaching the number of about 1,600 Etruscan anthroponyms that
correspond, more or less certainly, to as many Latin anthroponyms.
But - as I mentioned before - even Latin gentilicia and cognomina,
as well as their proper anthroponomastic value, have a lexical value
too and I have concluded that the lexical value of Etruscan
anthroponyms is the same of the corresponding Latin anthroponyms. Thus
the "comparison" and the connection between the Etruscan and Latin
anthroponyms has allowed us to reach about 1,600 of Etruscan words of
which, more or less, now we know the lexical and semantic value as
well, i.e. to expand the number of Etruscan words of which we, more or
less, deciphered the semantic value or "meaning" which was first
ignored.
10) It is well known that Etruscans, in their qualification that is
widely recognized by the ancients of a "very religious" people (which
also meant "very superstitious"; they were already used to do, for good
luck, horns with fingers), did influence the religion of the Romans a
lot.
Suffice it to recall that in the Roman Capitoline Triad, only
Jupiter was properly Roman, while the two other goddesses Juno and
Minerva were certainly of Etruscan origin. It was therefore another
linguistic obviousness to suppose that following the profound
Etruscan influences on Roman religion also a large part of religious
terminology of the Etruscans had entered into Latin language. This
entry of Etruscan religious terminology in Latin was logical and
"obvious" to suppose and to ascertain in the longer texts in Etruscan
language we possess, namely the Liber Linteus of the Mummy of Zagreb and the Tabula Capuana, of which it was soon realized that they were precisely "religious texts".
But the Italian archaeologists have neglected even to try and carry
out this research and checking, since they kept away from dealing with
the great texts of the Etruscan language, and - as I have already said
- they puzzled in the interpretation and translation of just the short
inscriptions.
On the contrary I threw myself into the study of the long religious
Etruscan texts, pivoting precisely in the belief that at least some
part of their religious terminology corresponded exactly to the Latin
one. And the results I obtained with this methodological perspective
and hermeneutics have gone far beyond my wildest expectations,
resulting in my final recent book I Grandi Testi della Lingua Etrusca tradotti e commentati
(Sassari 2011) where I have sent forth the broadest interpretation and
translation of these religious texts that has as yet been made.
11) It is well known that the father of Western historiography, the
Greek Herodotus (484-425 BC.), in one very famous passage of his (I
94), says that the Etruscans of Italy were nothing more than half of
the population of Lydia - land of Asia Minor or Anatolia, situated in
the centre of the Aegean coast - which had to emigrate because of a
severe famine which lasted 18 years. This story of Herodotus was later
confirmed and even enhanced with details by other 30 Greek and Latin
authors, but he was opposed by the only Greek historian, Dionysius of
Halicarnassus, who instead supported the argument that the Etruscans
were from Italy itself, that is they were "native (autochthonous)”.
Dionysius had lived four centuries after Herodotus and so much later of
the narrated events and also he had been essentially hostile to the
Etruscans, of which he contested the contribution to the power of Rome,
attributing it instead to the Greeks.
Well, it was logical and even "obvious" that among the 31 ancient
Greek and Latin authors (Herodotus + 30) in favour of the migratory
thesis (migrazionista, migratory) of Etruscans and only one - and, what is more, "suspected" - in favour of the autochthonous thesis (autoctonista),
the Italian archaeologists were to opt for the thesis of the first
ones, but instead they opted for the thesis of the second one. Fine
example, this, of a big "historiographical scrupulousness", a new
macroscopic episode of methodological "obviousness" which was ignored
and contradicted: opting for the testimony of one witness and
disregarding that of the other 31 texts!
In this regard, I note that also the well known religious and civic
Etruscan custom of indicating the passage of each year with the
hammering in of a nail into the temple of the goddess Northia (Livio
VII 3.7), leads us to suggest that the Etruscans had yet the clear
historical memory of the date of their arrival in Italy, that was the
beginning of this practice of theirs, and that of course they had great
care to recall. This practice in fact would have had no reason to exist
if it was true that the Etruscans were in Italy ever since.
Instead, starting from the fifties of the last century to the
present, among Italian archaeologists this thesis prevails: «The
problem of the origin of the Etruscans does not exist, as they were
only of Italian origin, that is, they were "natives"». And all this is
supported by archaeologists, although some linguists have been
demonstrating for years many connections that exist between the
Etruscan language on one side and some other languages of Asia Minor!
12) Starting from 1947, with his book L'Origine degli Etruschi
(Rome 1947), Massimo Pallottino, head of the Italian Archaeological
School, did not want any discussion on the "origin of the Etruscans"
anymore and in practice, at least here in Italy, for many decades
nobody has spoken on this subject anymore. According to him, that of
the "origin of the Etruscans" would be a problem that does not make
sense, as it would be the one of the "origin of the French”. Etruscan ethnos
- he reasoned - was born and grew up only in Italy, just as the French
civilization was born and grew up, that is "formed", exclusively in
Gaul.
This concept of the "formation of the Etruscan civilization" which
occurred only in Italy, similar to that of "the formation of French
civilization", which occurred only in France, was an absolutely firm
and indubitable point, which, since 1947, has affected almost all
studies relating to the Etruscan civilization and even those relating
to the Etruscan language up to now. Yet with a little attention it
could be seen that the concept of "formation" had a weak point in
itself: it was sufficient to note that, given that "French civilization
was formed only in France", nothing prevents a researcher from dealing
with the problem of the "origins" of the elements that have contributed
to the formation of French civilization, namely the problem of the
"origin of the Latin element" that came from Italy and the problem of
the "origin of the French element", that came from Germany .
Similarly, while conceding that "the Etruscan civilization was formed
in Italy", nothing prevents a scholar to consider the problem of the
"origin of the oriental element" which is clearly and strongly present
in the Etruscan civilization (it even was rightly called the
"Orientalizing") and which came from Lydia in Asia Minor.
As a result the Italian archaeological school has always insisted on
the perfect continuity between the ancient Villanovan culture of
central Italy and the later Etruscan civilization, while the
distinguished French historian of ancient civilization Jean Bérard, (La Magna Grecia - storia delle colonie greche dell'Italia meridionale, Turin 1963, pg. 493) pointed out that "The
Etruscan civilization of the historical age establishes itself in
opposition to the Villanovan one within which it develops, and nothing
is more different and contrasting between the poor graves of cremation
of the Villanovan period and the rich burial chambers of the proper
Etruscan period ".
Besides, another French scholar too, who is a deep connoisseur and
illustrator of the Etruscan civilization, Jacques Heurgon, argued,
albeit in a very diplomatic way, the thesis of the Eastern origin of
the Etruscans (see La vie quotidienne chez les Étrusques, Paris 1961, Rome et la Méditerranée Western jusqu'aux guerres puniques, Paris 1969).
13) There are quite numerous and quite obvious cultural and
linguistic connections that bind with Asia Minor or Anatolia also the
ancient civilization of Sardi Nuragici of Sardinia, which was the first
"civilization" of Italy, as it has preceded that of Etruscans of four
centuries (XIII-IX BC). There is also some information from ancient
Greek historians, which shows that even the Sardi Nuragici came - just
as the Etruscans - from the previously mentioned Lydia in Asia Minor.
And it is also very likely that Sardinians have derived their name and
that of their country Sardò-Sardinia from the name of Sardis or Sardeis, the capital of Lydia.
Cultural connections between Sardi Nuragici and the Etruscans had already been discovered and reported since several decades: tholos
or "dome" of Etruscan tombs similar to that of nuragic towers, funeral
small ships - of distant Egyptian origin - found in Etruscan tombs,
which are similar to the nuragic ones; Etruscan bronze small statues of
priests, priestesses, faithfuls and animals similar to the nuragic
ones, Etruscan weapons similar to nuragic weapons.
These close cultural connections between the Etruscans and the Sardi
Nuragici find their explanation in the important fact that Sardinia was
and is a stone's throw from Etruria. For the inhabitants of the
Etruscan cities of the Tyrrhenian coast - they were the older ones -
Cerveteri, Tarquinia, Vetulonia and Populonia, it was quicker, easier
and safer to reach Sardinia than the Etruscan cities of the Adriatic,
Spina and Adria.
And despite this other "obviousness" of the close and obvious
cultural connections and of geographical proximity, when with my first
works La lingua dei Sardi Nuragici e degli Etruschi and Lessico Etrusco Latino comparato col Nuragico
(Sassari 1981, 1984), I pointed out the 'existence even of language
connections between the wrecks of the Sardinian language Nuragici with
that of Etruscans, the Italian archaeologists did not pay any attention
to it. They did not object to anything, but they spread a veil of total
silence on the subject.
Only an archaeologist at the University of Perugia intervened with
an article published in a Rome newspaper to "destroy" my book. I
immediately replied by showing that he had no expertise to judge a book
of historical linguistics and that- much worse - he had not even read
it! A few years later the same person decided to intervene on my
translation of the Tabula Cortonensis, but again showing his
total linguistic incompetence, so as not to know the difference between
"subjective genitive" and "objective genitive" (see - quoted above - I Grandi Testi, Paragraph 3, p. 129).
14) In the ruling thesis which is unanimously and uncritically
accepted by Italian archaeologists, according to which "the Etruscan
language is not comparable with any other" it was and is implicit the
other argument that "the Etruscan language is not an Indo-European
language”.
It is quite clear and still "obvious" that to address this topic on
the Indo-European character or not of the Etruscan language you must
have a very wide and very deep glottological background, that is, of
"historical and comparative linguistics"; and this, of course, does not
belong to the scientific grounding of an archaeologist. This is despite
the thesis or the ruling of "non-indo-european character of Etruscan
language", perhaps the most widely and most commonly supported and
repeated argument by Italian archaeologists.
Yet there are nor few or little authoritative glottologists who
instead have argued the thesis of the Indo-European character of
Etruscan language: W. Corssen, S. Bugge, I. Thomopoulos, E. Vetter, A.
Trombetti, E. Sapir, G. Buonamici, E. Goldmann, P. Kretschmer, F.
Ribezzo, F. Schachermayr, A. Carnoy, VI Georgiev, WM Austin, RW
Wescott, FC Woudhuizen, F. Bader, FR Adrados, etc.. and also the author
of this study is included. I state that is fairly well known that the
discovery of the Indo-European linguistic unity has been historically
and primarily achieved owing to the fact that the numerals of the first
decade of many languages do correspond with each other. Well, for my
part I have even shown that precisely almost all Etruscan numerals of
the first decade correspond to those of other Indo-European languages
(see M. Pittau, Tabula Cortonensis - Lamine di Pirgi e altri testi etruschi tradotti e commentati, already quoted, Paragraph 5, which can be read also on my website www.pittau.it).
In addition I had the opportunity to show and highlight the
extraordinary and full convergence that is found between the Etruscan
language and other Indo-European languages on the following points (LEGL § 5):
a) enclitic conjunction in Etruscan -C,-ca, - us equal to that of Sanskrit - ca and Latin - que (Senatus Populus Romanus-que ) (LEGL § 110).
b) morpheme -s of the Etruscan genitive singular equal to that of Latin, of Greek and of other Indo-European languages (LEGL § 48).
c) morpheme -i of the Etruscan dative equal to that of Latin and Greek (LEGL § 57).
d) ending of the Etruscan present participle - nth (AMINTH «Lover» CLEVANTH «offerer», NUNTHENTH «prayer») equal to - nt - of Latin and Greek (LEGL § 124).
e) ending the Etruscan preterite - ke - us equal to the Greek - ke : Etr. TURICE, TURUCE, TURCE, TURKE «donated, has donated» to compare with the Greek dedórheke «donated, has donated».
f) the Etruscan locative ending - t e), t-(i)-th (e)-th(i) same as Greek, although rare, óikothi «at home» thyrhethi «at the door, outside», Ilióthi «in Ilium» (LEGL § 59).
g) Etruscan adverb TUI «here» equal to the Greek Tyi «here» (LEGL § 109).
These could seem convergences of very little importance, given the
very small phonetic consistency of those morphemes and of this adverb,
but instead it must be pointed out their strong demonstrative
consistency, provided that, for the "economy rule" which - as you know
- plays a huge role in the field of languages as well, linguistic facts
that are more frequent and thus the most important are those that have
the shortest and simplest phonetic structure (LEGL § 48).
And above all, we must note that these are linguistic facts which
are not related to the lexicon, in which loanwords among the languages
are very frequent, but to the "morphology", in which borrowings are
rare.
So even this very substantial and considerable "language
obviousness" has been ignored and contradicted by Italian
archaeologists, who presume to be able to also deal with the problems
of "Etruscan language": their scientific basic knowledge does not allow
them to intervene at all on the question of the Indo-European character
or not of the Etruscan language.
15) With such a long series of "obviousness" related to specific
scientific expertise, to exact linguistic procedures, - methodological
and hermeneutical ones - which were ignored, overlooked and
contradicted, it was logical and necessary that the Italian
archaeological school, monopolizing the Etruscan language, would lead
to what was undoubtedly the greatest "philological-linguistic failure"
that has ever been in the history of philological and linguistic
disciplines, starting with the Alexandrian philology up to the present.
And it is a "failure" that has been going on for 70 years and even
continues unabated!
In this very way and for these exact reasons, a fact that seemingly
so far could appear completely inexplicable can be explained: ancient
languages which have been discovered in recent times and are documented
with scanty and inconsistent inscriptions or excerpts of inscriptions,
in a few decades have been by linguists deciphered, translated and
classified. This is the case of the following languages: Sumerian, Hittite, Hurrian, Urartaic, Elamite, Ugaritic, Lycian, Lydian, Phrygian, etc.
But, with reference to the Etruscan language, which is documented by
about 11,000 inscriptions and also by quite consistent texts, such as Liber linteus and the Tabula Capuana,
hermeneutical and research progress, carried out by the Italian
archaeological school in recent decades have been almost imperceptible.
The enormity of this "cultural failure" is just directly proportional
to the great political, organizational and economic power that the
Italian archaeologists have got and that they use extensively.
On this subject it should be noted that archaeologists - especially
the Italian ones - have a huge political, economic and organizational
power, that no category of humanities scholars, sociologists,
anthropologists, philologists, linguists, historians, etc. not even
dream to possess.
First of all, archaeologists have an enormous political power,
since, with legal instruments on hand, are able to block or change
zoning of cities, impede or block private buildings and public
buildings as well, deflecting railways, roads, highways and airports,
to declare true or false findings that consequently gain or lose value.
And for this reason archaeologists are feared, respected, cherished and
supported by politicians and public officials at all levels.
Secondly, since archaeologists are the "gatekeepers" of a
considerable part of the "archaeological and artistic heritage" of
Italy - which is also its largest and most true economic richness - for
their office they get major funding from the State , Regions,
Provinces, "Comunità Montane" (Mountain Communities), by municipalities
and banks; with this money they are able to organize, with total
autonomy and discretion, ground excavations, restoration of monuments,
exhibitions, conferences and to print all publications and scientific
journals they ever want.
In 1985 in the areas of ancient Etruria, Tuscany, Umbria and northern Latium, the II International Etruscan Congress
was organised (the first had been organized in 1929), which was
attended by over 600 conference participants from all parts of the
world; on that occasion in different cities beautiful exhibitions were
opened and a series of good publications on various aspects the
Etruscan civilization were printed. For the organization of that
grandiose conference it seems that, with the financial assistance of
the State, of the regions of Tuscany, Umbria, Lazio and Emilia Romagna,
the municipalities of various big cities, of the Italian Car Factory
FIAT and the bank Monte dei Paschi di Siena, the sum of 4 billion of
Italian lire (even the sum of 14 billion was quoted, but I do not
believe it is true) was reached. Anyway, it was a very nice sum, with
which it was not so difficult to organize such a grand conference.
For the same high volume of financial resources they manage,
archaeologists have an easy access to all the major publishing houses,
which, of course, are always willing to publish books full of beautiful
photographs and numerous drawings of archaeological monuments. And for
this same reason archaeologists have easy access in newspapers and
magazines, with articles and interviews given to the wide popular
divulgation.
In addition to this in the publishing houses archaeologists are also
able to block and boycott publications that are not to their liking. I
will present a personal case: a well-known and leading publisher in
Florence declared to be available and happy to publish my work Dizionario della Lingua Etrusca
(Sassari 2005), which includes, analyzed and often translated, the
entire vocabulary of the Etruscan language, which has been discovered
and published up to 2005, and it was the first and only overall
vocabulary of the Etruscan language ever existing. Of this Dictionary of Etruscan Language,
Riccardo Ambrosini, Professor of Linguistics at the University of Pisa,
as well as President of the "Accademia Lucchese di Scienze, Lettere e
Arti," at which I had been called to hold two conferences, one on Tabula Cortonensis and the other one just on my Dictionary, had written to me from San Lorenzo di Moriano on 18/11/2005 as follows: "Dearest Pittau, I have just received your wonderful Dictionary of Etruscan Language and
I hastened to read some pages that attracted my immediate curiosity. I
want to congratulate you on the clever arrangement of the material and
the prudence of some proposals, which you emphasize well in your clear
introduction. (....) Congratulations and a heartfelt sorry for my envy
for your wonderful work, and together with these, my warmest thanks and
most cordial greetings. Your [signed]". But the Florentine publisher
was dissuaded from publishing my Dictionary at least by some
members of the "Istituto di Studi Etruschi ed Italici" (Etruscan and
Italic Studies Institute) in Florence, then apologized to me by saying
that he had continuous and organic dealings with that institution...
Finally, the directors of the various archaeological museums are
often able to make "private" what are the "public archaeological and
art heritage", i.e. belonging to the Italian nation, failing to show
them to other scholars and using them instead for their own
publications. A dozen years ago, the Superintendent of the
Archaeological Heritage of Tuscany, having got hold of the seven
fragments of the famous Tabula Cortonensis, kept them hidden for more than five years to finally put them into circulation with his personal publishing (see M. Pittau, Tabula Cortonensis - Lamine di Pirgi ed altri testi etruschi tradotti e commentati , Sassari 2000, pages. 41-42).
Well, with all their immense political, administrative and economic
power it was not difficult for the Italian archaeologists to grab,
govern and monopolize the Etruscan language: they are able to organize
and rule all the conferences on the Etruscan language they want, choose
the official speakers, of course excluding those they do not like,
print publications related to the Etruscan language, accept or reject
linguistic study papers of their magazines - especially the richest one
that is the "Etruscan Studies" ("Studi Etruschi") in Florence.
Finally - last but not least - archaeologists obviously are ruling
in their absolute pleasure, as well as in the allocation of regional
Archaeological Superintendence, the chairs of Etruscologia in
the universities across Italy, chairs in which they pursue and delude
themselves that they know how to teach the Etruscan language too, with
the help of some educational booklets that I, who also wrote the
successful La Lingua Etrusca- grammatica e lessico (Nùoro 1997; initials LEGL),
do not hesitate to call "indecent" because merely state rudiments of
the Etruscan language dating back to the middle of the last century.
16) At this point the question arises: how did in these seventy
years and how do glottologists and linguists behave now with reference
to the Etruscan language?
Some linguists completely conformed to the positions of
archaeologists and have been well received by them in all their
initiatives, conferences, publications and magazines, and together with
them, do share the glory and power.
Some other linguists attempted to enter the world of the Italian
Etruscology, but with linguistic theories which are not perfectly in
line with those of archaeologists, with the result that they had no
luck and had to retire from the field.
I begin by mentioning the case of the linguist Marcello Durante, author of the important study Considerazioni intorno al problema della classificazione dell'Etrusco
- "Part One" (in Studi Micenei ed Egeo-Anatolici", VII, 1968, pp. 7-60,
- "Part One" (in "Studies Mycenaean and Aegean-Anatolian", VII, 1968,
p. 7-60), in which he connected the Etruscan language with ancient
Anatolian languages and in which there was the announcement of a
subsequent "Part Two”. Having one day asked this colleague, Mr Durante,
when his second study would appear, since he announced the printing of
it, he replied, very disappointed, that he had completely renounced to
his idea after he observed the utter indifference with which the
Italian archaeologists had received his first study ...
And a complete indifference the Italian archaeologists showed for a
study of another glottologist at the University of Pavia, a specialist
in Anatolian languages, Onofrio Carruba, L'Origine degli Etruschi: il problema della lingua
(Atti VI Convegno Internazionale di Linguisti, Milano 1974 Brescia
1977, p. 137-151), (Acts VI International Congress of Linguists, London
1974 Brescia 1977, pages. 137-151). He, too, connected the Etruscan
language also with ancient languages of Asia Minor. Indeed, while I
have seen mentioned a few times by the Italian archaeologists the study
by Marcello Durante, on the one by Mr Carruba a silence fell. And the
reason is quite clear: Carruba had dared to explicitly address the
issue of origin of the Etruscans, which was a forbidden topic and excommunicated by the Italian archaeological school ...
And other linguists had later no better luck: they reported the
Etruscan language still in the framework of the ancient languages of
Asia Minor, Vladimir I. Georgiev, The language and the origins of the Etruscans (1979), and Lydiaka und Lydisch-Etruskische Gleichungen (1984) , and Francisco R. Adrados, Etruscan as an IE Anatolian (Hittite but not) Language (1989) (In "The Journal of Indo-European Studies", Washington 1989, Monograph no. 5, pages. 363-383.
And finally, the undersigned, linguist who wrote more than anyone on
the tongue and rusca (12 books and hundreds of studies ) and in my
research and analysis have involved the high number of about 1,000
titles, 2,500 anthroponyms and 1,600 Etruscan texts: total indifference
on the part of etruscologists-archaeologists, absolute silence on their
part!
However, it must be pointed out and lamented that, in general,
linguists, Italian and foreign ones, have been kept and were kept away
from the Etruscan language, because obviously they were intimidated by
the overwhelming power of archaeologists and by the ostracism exercised
by them against "heretics".
But probably even more serious is the "cultural failure" on the
Etruscan language caused by archaeologists, towards the great mass of
readers and fans, who are a great number in Italy and in Europe: as a
result of the ruling thesis of the archaeologists about the fact that
"the Etruscan language is not comparable with any other", in the
general intellectual public, and even among the teachers of every
school and grade, it exists the serious prejudice by which the
"Etruscan language is all a mystery," "the Etruscan language is an
impenetrable sphinx", which so far no one has been able to "decipher".
And this prejudice that runs in the general intellectual public
drags another even more serious and very picturesque: in newspapers, in
magazines, in television programmes of various broadcasts, at least
every half year an erratic genius arises who is the “discoverer of the
decryption key of Etruscan language". And he has for some months the
media fame and glory, as long as this is obscured after a while by a
new "discoverer of the decryption key of Etruscan language" ...
So these are the actual results of the monopoly and the ruling which
made a category of the Etruscan language, or, rather, a "caste" of
individuals so powerful that they can pass off as "linguistic
competence" and boast of what is absolutely not!
Massimo Pittau
Professore Emerito of the University of Sassari
2012
Nota bene : references can be found in the writing of the same author, 50 anni di studi sulla lingua etrusca in Italia, which can also be read on his website.
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