5O ANNI DI STUDI SULLA LINGUA ETRUSCA IN ITALIA

di Massimo Pittau

 

1. È un fatto incontestabile che negli ultimi cinquant'anni la etruscologia è stata dominata dalla imponente figura di Massimo Pallottino e dalla relativa scuola che egli ha creato a Roma e in Italia. Gli strumenti operativi di questo studioso e dei suoi allievi sono stati in primo luogo l'"Istituto Nazionale di Studi Etruschi ed Italici" di Firenze, in secondo luogo l'"Istituto di Etruscologia e Antichità Italiche" dell'Università di Roma e da ultimo l'"Istituto per l'Archeologia Etrusco-Italica" del Consiglio Nazionale delle Ricerche. In quest'ultimo mezzo secolo per merito di Massimo Pallottino e della sua scuola l'etruscologia ha effettuato enormi progressi nella conoscenza della civiltà etrusca, soprattutto nei suoi aspetti archeologico, artistico, storiografico e storico-religioso.
E pure discreti meriti ha acquisito quella scuola in ordine allo studio della lingua etrusca. In questo campo è doveroso citare innanzi tutto la raccolta di iscrizioni etrusche di Massimo Pallottino, intitolata Testimonia Linguae Etruscae, pubblicata a Firenze nel 1954 e dopo in seconda edizione nel 1968, la quale per alcuni decenni è stata lo strumento basilare per gli studi sulla lingua etrusca.
In secondo luogo è da citare il fatto che il Corpus Inscriptionum Etruscarum, iniziato da C. Pauli a Lipsia più di un secolo fa, nel 1893, ma fermatosi alla data del 1935, è stato acquisito dall'"Istituto di Studi Etruschi ed Italici" di Firenze ed ha ripreso le sue pubblicazioni nel 1971, curate da Mauro Cristofani e da Maristella Pandolfini Angeletti.
Ancora la autorevole rivista di questo Istituto, gli "Studi Etruschi", ad iniziare dal suo volume XXX (1962), ha aperto una sezione intitolata Rivista di Epigrafia Etrusca, con due finalità specifiche: prima, quella di procedere alla pubblicazione ed alla illustrazione delle iscrizioni etrusche scoperte nuovamente a seguito di recenti scavi archeologici o di rinvenimenti casuali; seconda, quella di procedere alla revisione e rilettura critica di iscrizioni già conosciute e pubblicate in precedenza.
Infine un merito notevolissimo di Massimo Pallottino e della sua scuola è la pubblicazione nel 1978 del Thesaurus Linguae Etruscae - I indice lessicale (Roma, 1978), Primo Supplemento (1984), Ordinamento inverso dei lemmi (1985), Secondo Supplemento (1991). Si tratta di un'opera fondamentale, la quale ha in pochi anni impresso numerosi e forti scossoni di progresso alla ermeneutica e allo studio della lingua etrusca. La immensa utilità del Thesaurus Linguae Etruscae è presto spiegata: esso mette a disposizione degli studiosi l'intero patrimonio lessicale della lingua etrusca che è stato rinvenuto fino ad ora, molto più facilmente di quanto non facessero i grossi, ingombranti e costosi volumi del Corpus Inscriptionum Etruscarum. I lemmi infatti sono presentati in ordine alfabetico e spesso assieme col loro essenziale "contesto linguistico", quasi sempre con la datazione generica, talvolta con alcuni riferimenti bibliografici. Già lo stesso ordinamento alfabetico del Thesaurus consente ad un qualsiasi linguista, anche modestamente attento, di vedere con facilità le varianti dei lessemi, le diverse usanze grafiche seguite dagli Etruschi sia nel senso diatopico sia in quello diacronico; consente di vedere corrispondenze e trasformazioni da un fonema all'altro. L'Ordinamento inverso dei lemmi poi mette il linguista nelle condizioni di riscontrare e di isolare i vari morfemi dei vocaboli, cioè le desinenze delle declinazioni nominali, le terminazioni delle coniugazioni dei verbi, ecc.
La validità e l'utilità, anzi la indispensabilità del Thesaurus Linguae Etruscae ai fini dello studio della lingua etrusca non sono state per nulla intaccate da un'altra opera, successiva, la quale aspirava appunto a superare e sostituire il Thesaurus, gli Etruskische Texte (editio minor) di Helmut Rix (Tübingen, 1991). Purtroppo quest'opera ha sino ad ora fallito in larga misura nelle sue finalità a causa di numerosi e talvolta sostanziali difetti di cui risulta carica. Agli studiosi non resta che attendere la editio maior dell'opera, con la speranza che l'Autore elimini i numerosi difetti che alcuni studiosi abbiamo trovato e segnalato (1).
Si deve infine segnalare la bella ed importante pubblicazione fatta in occasione del II Congresso Internazionale Etrusco (1985), curata da Francesco Roncalli, dal titolo Scrivere etrusco (Milano, ediz. Electa), nella quale sono riportati i più ampi ed importanti testi della lingua etrusca, il Liber linteus della Mummia di Zagabria, la Tegola di Capua e il Cippo di Perugia, con la relativa bibliografia.

2. Però l'interesse e la cura che il Pallottino e la sua scuola hanno dimostrato in questi ultimi cinquant'anni anche per la lingua etrusca hanno avuto pure riflessi negativi ai fini del progresso degli studi linguistici propriamente detti. Si consideri che il Pallottino ed i suoi allievi erano e sono fondamentalmente e prevalentemente "archeologi", mentre nessuno di loro ha mai dimostrato di aver acquisito anche una analoga od almeno sufficiente preparazione propriamente linguistica. A questo proposito è appena il caso di accennare e sottolineare che la specializzazione archeologica è molto distante e differente da quella linguistica, ragion per cui un archeologo può anche essere un grande studioso nella sua disciplina, mentre, se non si è fatta anche una analoga preparazione linguistica, in quest'ultimo settore sarà niente più che un orecchiante. Ebbene, questo peccato di origine della scuola archeologica italiana si è riflesso e riflesso pesantemente su molti degli studi da essa tentati in questi ultimi decenni intorno alla ermeneutica della lingua etrusca e soprattutto intorno al suo studio propriamente linguistico.

3. Il primo grosso errore che è derivato da quel peccato originale, consiste in un concetto o, meglio, in un preconcetto dal quale la scuola archeologica italiana si è mostrata affetta per parecchi decenni: preconcetto secondo cui "la lingua etrusca non sarebbe accostabile o comparabile con nessun'altra lingua", preconcetto che risaliva, niente di meno, a Dionisio di Alicarnasso (I 30, 2)...! (2)
Ovviamente una affermazione di questo tenore avrebbe avuto una sua fondatezza scientifica solamente ad una condizione: che gli archeologi italiani avessero dimostrato di conoscere tutte le lingue di tutti i popoli che sono vissuti nel passato nelle terre che gravitano attorno al bacino del Mediterraneo; e conoscendole tutte ed alla perfezione gli archeologi avrebbero potuto alla fine anche concludere con la loro tesi che "la lingua etrusca non è accostabile o comparabile con nessun'altra". Senonché gli archeologi italiani non hanno mai dimostrato di possedere quella vastissima e approfondita competenza di linguistica storica, ragion per cui la loro tesi della "assoluta incomparabilità della lingua etrusca con una qualsiasi altra lingua", continuamente ripetuta sino alla noia, era del tutto destituita di fondamento e soprattutto priva di motivazioni.
Logicamente questo preconcetto relativo alla lingua etrusca peculiare della scuola archeologica italiana non poteva non avere i suoi gravi riflessi negativi sull'ermeneutica e sullo studio di quella lingua, posto che il primo e fondamentale strumento della linguistica storica o glottologia è per l'appunto la comparazione. Si tolga la comparazione dalle mani di un linguista storico e con ciò stesso gli si toglie ogni possibilità di lavoro scientifico. Si tolga - come hanno fatto a lungo gli archeologi italiani - la comparazione nello studio della lingua etrusca, e con ciò stesso si blocca alle radici il progresso sia della sua ermeneutica sia del suo studio scientifico.
In questo modo si spiega un fatto che nell'apparenza poteva finora riuscire del tutto inspiegabile: lingue antiche scoperte in tempi recenti e documentate con scarse e poco consistenti iscrizioni o brani di iscrizioni, nel giro di qualche decennio sono state dai linguisti moderni decifrate, tradotte e classificate, e ciò appunto per merito della comparazione con altre lingue conosciute. È il caso di queste lingue: il sumerico, l'ittito, lo hurritico, l'urartaico, l'elamitico, l'ugaritico, il licio, il lidio, il frigio ecc.(3) Invece relativamente alla lingua etrusca, documentata con più di 10 mila iscrizioni ed anche con testi abbastanza consistenti come il Liber linteus della Mummia di Zagabria, i progressi ermeneutici e di studio sono stati in questi ultimi decenni quasi impercettibili. La spiegazione di questa apparente incongruenza od anomalia è abbastanza chiara: il divieto della comparazione imposto dagli archeologi italiani col loro preconcetto secondo cui "la lingua etrusca non è accostabile o comparabile con nessun'altra"...
Non è difficile intravedere che la prima e più forte spinta che gli archeologi italiani hanno avuto per mettere in circolazione la loro tesi della "incomparabilità della lingua etrusca", veniva come reazione alla circostanza che questa lingua in precedenza era stata accostata e comparata, spesso anche in maniera dilettantesca, con una lunga serie di altre lingue, con risultati quasi sempre disastrosi e spesso anche ridevoli. Senonché una tale situazione di fatto non doveva nelle loro mani trasformarsi in una ragione di principio: il fatto che sino ad allora fossero più o meno falliti i tentativi di accostare e comparare l'etrusco con una dozzina di altre lingue, non implicava necessariamente che dovesse fallire un nuovo tentativo di accostare e comparare l'etrusco con una nuova tredicesima lingua... Una "soluzione mancata" (più o meno) in linea di fatto non doveva essere trasformata in una "soluzione impossibile" in linea di principio.

4. La totale ostilità che gli archeologi italiani hanno da tempo dimostrato e tuttora dimostrano a comparare l'etrusco con altre lingue è da loro espressa anche come totale opposizione a quello che essi non esitano a chiamare e definire il "famigerato metodo etimologico". Senonché non si sono accorti né si accorgono che al concetto di "etimologia" essi danno un significato fortemente deviato e deviante. Infatti etimologia significa ed implica "derivazione", mentre comparazione non significa né implica necessariamente anche "derivazione". Un linguista infatti può comparare - come alcuni hanno già fatto - l'etrusco puia "moglie" col greco opyîein "sposare", e gli etruschi sem "sette" e nur "nove" coi lat. septem e novem, senza però arrivare ad affermare che gli uni derivano dagli altri. Dunque comparazione non significa automaticamente derivazione etimologica. Su questo punto è opportuno ricordare quanto ha scritto a più riprese Vittore Pisani: propriamente parlando, quelli indoeuropei non sono "vocabolari etimologici", mentre sono "vocabolari comparativi" (4).
Ovviamente col ricordare e ribadire la differenza che esiste tra la comparazione e l'etimologia, tra la comparazione e la derivazione, noi linguisti non possiamo non difendere la perfetta legittimità anche della etimologia. Pertanto non possiamo non respingere con fastidio - ma anche con senso di umorismo - la ricorrente frase degli archeologi nostrani "il famigerato metodo etimologico". Si tolgano al linguista sia la comparazione sia la etimologia e ci si venga a dire che cosa resta da fare al povero glottologo o linguista storico!

5. In maniera unanime gli archeologi italiani sostengono che per la lingua etrusca "non esiste alcun problema di decifrazione", in quanto essa sarebbe stata già "decifrata del tutto" (5). Ma anche con questa loro tesi essi non si accorgono di avere un concetto molto improprio ed in parte errato della "decifrazione linguistica".
In realtà per una lingua antica di cui siano state trovate solamente documentazioni scritte, esistono due differenti "decifrazioni", o, meglio, due differenti gradi di decifrazione. Il primo consiste nel "decifrare i grafemi", cioè nel riuscire a trasformarli in fonemi, ossia nel riuscire a pronunziarli; e di certo questo primo grado di decifrazione è stato già effettuato per la lingua etrusca, la quale, in virtù dell'uso che gli Etruschi facevano dell'alfabeto greco, è ormai quasi perfettamente e totalmente leggibile o pronunziabile. Ma la vera e più importante "decifrazione" viene dopo, quella per cui dai grafemi si passa a capire quale effettivamente sia l'esatto significato che essi portano e nascondono, quella decifrazione per cui dai "segni grafici" si riesce a passare ai rispettivi "significati fattuali o concettuali". È del tutto evidente che il vocabolo e il concetto di "decifrazione" trae origine dalla pratica dei messaggi segreti, che vengono criptati e trasmessi con "cifre". Ebbene, in un ufficio di decifrazione militare, in cui mi sono trovato ad operare durante l'ultima guerra mondiale, il nostro primo compito era di certo quello di riuscire a "captare" esattamente le "cifre" dei messaggi cifrati del nemico, ma la vera decifrazione di questi messaggi veniva da noi effettuata solamente dopo, quando da quelle cifre captate riuscivamo a passare al messaggio che esse portavano e nascondevano, quando cioè riuscivamo a passare dai segni cifrati ai rispettivi fatti o concetti significati. Ecco, vera e propria decifrazione linguistica - lo ripeto e lo sottolineo - si ha quando si riesce a passare dai segni grafici ai significati espressi.
Ebbene, nonostante che gli archeologi italiani lo neghino decisamente, il problema della decifrazione della lingua etrusca sussiste tuttora ed in larghissima misura. Ad es., tra i più di 500 differenti vocaboli che si trovano nel Liber linteus della Mummia di Zagabria, pur essendo tutti ormai quasi perfettamente leggibili e pronunziabili, solamente di una ventina è stato fino ad ora decifrato in maniera certa il relativo significato, mentre per tutti gli altri esiste ancora ed in forma grave il problema della "decifrazione".

6. In questi ultimi decenni tra gli etruscologi italiani si è fatto un gran parlare e discutere sul problema dei metodi da adoperare per affrontare lo studio della lingua etrusca, in ragione diretta del suo carattere di "lingua non comparabile con nessun'altra". Non esito a dire che a me personalmente quelle discussioni sono sembrate in larga misura oziose e la prova migliore di questo mio convincimento viene da due circostanze: da un lato è certo che non sono derivati molti lumi e molte scoperte intorno ai testi etruschi affrontati ed analizzati da coloro che quelle discussioni avevano mandato avanti; dall'altro è pure certo che una tale discussione pertinente ai metodi di studio non si è mai verificata intorno a nessun'altra lingua antica. A mio modesto avviso l'approccio interpretativo od ermeneutico alla lingua etrusca - come del resto ad una qualsiasi altra lingua almeno relativamente sconosciuta - non implica soltanto quei metodi che sono stati teorizzati e canonizzati dagli archeologi italiani: il metodo combinatorio, quello etimologico, quello bilinguistico, quello strutturale e qualche altro, ma ne implica anche altri, senza che per nessuno valga un privilegio rispetto agli altri. Premesso e ricordato infatti che la prima idea che un interprete si fa di un certo vocabolo o di una certa frase di una iscrizione esaminata e studiata è un fatto di natura "intuitiva", c'è da osservare che questa "intuizione" o prima idea nell'interprete nasce con procedimenti concettuali ed anche per occasioni pratiche od ambientali, di cui spesso egli stesso non si rende conto e di cui spesso non riesce a ricordare l'esatta origine psicologica. La prima idea od "intuizione" del valore semantico di un certo vocabolo sconosciuto, etrusco o di un'altra qualsiasi lingua, può venire perfino da un confronto linguistico errato: ad esempio, io ritengo che la prima idea od intuizione del valore semantico del vocabolo etrusco mi "io" sia venuta agli interpreti dell'Ottocento dalla circostanza che in numerosi dialetti italiani mi significa appunto "io". Eppure è certo che il mi "io" dialettale italiano non deriva affatto dall'etrusco, bensì deriva dal lat. me, trasformatosi in mi perché nella frase risulta quasi sempre proclitico ed atono (6).

7. Nella nota e secolare diatriba relativa alla origine degli Etruschi, autoctoni secondo Dionisio di Alicarnasso oppure trasmigrati dalla anatolica Lidia in Italia, secondo Erodoto, il Pallottino e la sua scuola hanno nella sostanza optato decisamente per la prima tesi. Però in realtà questa opzione stupisce parecchio, quando si consideri che la tesi autoctonista di Dionisio non è stata condivisa da nessun altro autore antico, mentre quella migrazionista di Erodoto è stata condivisa da altri 3O autori greci e latini ed inoltre ne erano convinti gli stessi Etruschi, come dimostrano sia un loro decreto ricordato da Tacito (Annales, IV 55, 8) sia due loro famosi riti: il rito della infissione dei clavi annales nel tempio della dea Northia (Livio, VII 3, 7), per indicare il passare degli anni, e quello della fondazione delle città more etrusco; l'uno e l'altro erano e sono spiegabili solamente da parte di un popolo immigrato in un dato territorio, il quale teneva a conservare la memoria storica del suo arrivo ed inoltre eseguiva particolari cerimonie nel fondare città ex novo, mentre non erano né sono spiegabili da parte di un popolo che fosse vissuto in quel territorio da tempo immemorabile (OPSE, §§ 10, 11, 56). Inoltre anche la nota dottrina etrusca dei saecula (Censorino, De die natali, 17, 5, 6), con la connessa credenza della fine della nazione etrusca dopo il decorso di un certo numero di secoli, non poteva che appartenere ad un popolo che sapeva e ricordava di essere arrivato in Italia come immigrato.
Non depone di certo a favore di una spiccata capacità storiografica l'aver accettato la testimonianza di un solo autore greco (Dionisio) e l'avere invece trascurato quella di 31 autori, greci e latini, con in testa il padre della storiografia occidentale, Erodoto (7).
D'altronde si deve precisare che, come ha dovuto riconoscere lo stesso Pallottino, fra gli etruscologi moderni sono molto più numerosi quelli favorevoli alla tesi erodotea migrazionista che non a quella dionisiana autoctonista (8). D'altronde, a prescindere dalla ovvia e perfino commovente adesione dei suoi allievi, egli si accorse alla fine di essere rimasto piuttosto isolato nel sostenere la sua tesi fondamentalmente autoctonista; e lo riconobbe malvolentieri e con forte disappunto che non evitò neppure l'offesa, quando scrisse testualmente: "La maggior parte degli studiosi è schierata, più o meno decisamente (e più o meno "intelligentemente") a favore dell'origine orientale" ed inoltre tacciò gli studiosi migrazionisti di "distrazione, leggerezza e pigrizia mentale" (9)
Il Pallottino dunque, ad iniziare dal 1947, col suo libro L'origine degli Etruschi (Roma 1947), non ha più voluto che si parlasse della "origine degli Etruschi" e di fatto almeno qui in Italia non se ne è più parlato per numerosi decenni. Secondo lui, quello della "origine degli Etruschi" sarebbe un problema privo di senso, come lo sarebbe quello della "origine dei Francesi". L'ethnos etrusco - egli ha ragionato - è nato e si è sviluppato, cioè si è "formato" in Italia, proprio come la civiltà francese è nata e si è sviluppata, cioè si è "formata" in Gallia. Questo è il verbo che ha dominato la etruscologia italiana almeno nei versanti della archeologia, della storiografia e della storia dell'arte e della religione, questo è il verbo che per numerosi decenni ha escluso ogni discussione sull'argomento.
Il concetto della "formazione della nazione etrusca" avvenuta solamente in Italia analogo a quello della "formazione della nazione francese" avvenuta solamente in Francia è stato come un punto assolutamente fermo e indubitabile, il quale ha condizionato dal 1947 in poi quasi tutti gli studi relativi alla civiltà etrusca e perfino quelli relativi alla lingua etrusca. Eppure con un po' di attenzione si sarebbe potuto vedere che quel concetto di "formazione" aveva un suo punto debolissimo: era sufficiente osservare che, pur concedendo che "la nazione francese si è formata soltanto in Francia", niente vieta ad uno studioso di mettersi il problema delle "origini" degli elementi che hanno contribuito alla formazione della nazione francese, e precisamente il problema della "origine dell'elemento latino" che proveniva dall'Italia e quello della "origine dell'elemento franco" che proveniva dalla Germania. Analogamente, pur concedendo che "la nazione etrusca si è formata in Italia", niente vieta ad uno studioso di mettersi il problema della "origine dell'elemento orientale" che è presente in maniera evidente e massiccia nella civiltà etrusca (è stato giustamente chiamato "l'Orientalizzante") e che proveniva dalla Lidia nell'Asia Minore (10).
La scuola archeologica italiana ha sempre insistito sulla perfetta continuità che si constaterebbe tra l'antica cultura villanoviana dell'Italia centrale e la successiva civiltà etrusca, mentre l'illustre storico della civiltà antica Jean Bérard ha fatto giustamente osservare che "La civiltà etrusca dell'età storica si afferma in opposizione a quella villanoviana nel cui seno si sviluppa; e nulla è più diverso e contrastante dalle povere tombe a incinerazione del periodo villanoviano delle ricche camere funerarie del periodo etrusco vero e proprio" (11).

8. La sostanziale opzione della scuola archeologica italiana per la tesi autoctonista relativa alla civiltà etrusca non è stata priva di conseguenze negative circa lo sviluppo degli studi sulla lingua etrusca: gli archeologi italiani non hanno mai recepito l'invito che non pochi linguisti hanno ripetutamente fatto a connettere l'etrusco con antiche lingue dell'Asia Minore. E non potevano fare diversamente, perché accettare quell'invito implicava per essi rinunziare alla loro tesi autoctonista dionisiana ed abbracciare invece quella migrazionista erodotea...
Comincio col citare il caso di un importante studio di Marcello Durante, Considerazioni intorno al problema della classificazione dell'etrusco - "Parte Prima" (1968) (12), nel quale l'Autore connetteva chiaramente la lingua etrusca con antiche lingue anatoliche e nel quale c'era l'annunzio di una successiva "Parte Seconda". Avendo un giorno incontrato il Durante ed avendogli chiesto quando sarebbe comparso il secondo studio già preannunziato, egli mi disse che aveva rinunziato del tutto a quella sua idea dopo che aveva constatato la totale indifferenza con cui gli archeologi italiani avevano accolto il suo primo studio... (13)
E assoluta indifferenza hanno in seguito manifestato gli archeologi italiani anche per un altro studio di un linguista specialista in lingue anatoliche, Onofrio Carruba, L'origine degli Etruschi: il problema della lingua (1974) (14), il quale, pure lui, connetteva l'etrusco anche con antiche lingue dell'Asia Minore. Anzi, mentre mi è capitato di vedere citato qualche volta da parte degli archeologi italiani lo studio di Marcello Durante, su quello del Carruba è calato un silenzio totale. E se ne capisce il motivo di fondo: il Carruba aveva osato trattare esplicitamente il tema della origine degli Etruschi, che era un tema proibito e scomunicato dalla scuola archeologica italiana...
Né migliore sorte hanno avuto in epoca immediatamente successiva altri linguisti che hanno riportato la lingua etrusca al quadro delle antiche lingue dell'Asia Minore: Vladimir I. Georgiev, La lingua e l'origine degli Etruschi (1979), e Lydiaka und Lydisch-Etruskische Gleichungen (1984) (15); chi vi parla con ben tre libri e numerosi scritti (16). Ed infine, recentemente, Francisco R. Adrados, Etruscan as an IE Anatolian (but not Hittite) Language (1989) (17): totale indifferenza da parte degli etruscologi-archeologi italiani, assoluto silenzio da parte loro!

9. A questo punto sorgerà spontanea e perfino doverosa la domanda su quale sia effettivamente la "cultura linguistica" degli archeologi italiani rispetto alla lingua etrusca. La risposta è del tutto facile: la loro cultura linguistica è quella espressa e consolidata nel capitolo che M. Pallottino ha dedicato all'argomento nella sua fortunata opera Etruscologia, cultura linguistica consolidata quasi esattamente da mezzo secolo, cioè dalla I edizione di questo manuale che era del 1942 alla VII che è del 1984 (Milano, Hoepli). Per il vero il Pallottino ha dedicato all'argomento della lingua etrusca anche un lungo capitolo che è stato pubblicato nell'opera di Autori Vari, Popoli e Civiltà dell'Italia antica, col titolo La lingua degli Etruschi (1978) (18), articolo che, con qualche lieve integrazione, poco dopo è stato pubblicato in francese col titolo La Langue Étrusque - problèmes et perspectives (Paris 1978). Inoltre nel 1996 la rivista "Studi Etruschi" ha pubblicato un articolo postumo di M. Pallottino, che avrebbe dovuto far parte di un'intera opera intitolata Lingua e letteratura degli Etruschi, ma in esso non compare alcuna novità rispetto alle precedenti tesi dell'Autore (19). C'è poi da ricordare che il Pallottino, all'inizio della sua carriera accademica, aveva composto e pubblicato un libro intitolato Elementi di lingua etrusca (Firenze 1936), ma è molto significativa della consistenza scientifica di questo suo lavoro giovanile la circostanza che neppure lui lo abbia mai citato nei suoi lavori successivi (20).
Ebbene, se anche non conoscessimo il curriculum di studi del Pallottino e precisamente la sua specializzazione archeologica, da tutti i suoi studi ed interventi relativi alla lingua etrusca risulterebbe chiaramente che egli non era affatto un "linguista" e che una mentalità o almeno una metodologia "linguistica" egli non se l'era mai fatta.
Faccio riferimento alla Parte III del manuale Etruscologia, dedicata interamente al "Problema della lingua", comprendente ben 112 pagine e costituente la più ampia esposizione ed inoltre quella ultima dell'illustre archeologo. Ebbene, indubbiamente in questa Parte III l'Autore si dimostra molto bene informato intorno alla letteratura relativa alla lingua etrusca ed inoltre alla sua problematica. Senonché in questo studio compaiono numerose considerazioni come le seguenti, che mi sembra opportuno riportare alla lettera:

"ara, aras, arasa, arce, arth, erce, ersce verbo di significato incerto, ma forse esprimente azione di movimento (con arse verse "allontana il fuoco"?)" (pag. 506).
"etr-, ethri; etrse; etra-sa verbo connesso con azioni sacre (forse da collegare con tur?); probabili derivati eter-ti(c), etrin-thi" (pag. 508).
"hante, hate, hathe, hanthin espressioni nominali o avverbiali probabilmente indicanti una posizione ("avanti"??); possibile derivato hatrencu, riferito a persone" (pag. 509).
sat-, sath-, sath- (sath-e; sat-ena, -ene; sath-as) verbo indicante azione di porre o stabilire?, forse ricollegabile con sut-, suth (pag. 514).
"ut-, uth- uta, utus, utuse, utin-ce, uthari? verbo probabilmente indicante l'azione di dare o porre" (pag. 516).

Orbene, personalmente escludo del tutto che un odierno linguista di professione oserebbe inserire in un suo studio frasi come queste trascritte, fondate come sono su leggerissime omofonie fonetiche e su vaghissimi e per di più ipotetici riferimenti semantici; frasi che si potevano scrivere ancora nei primi decenni dell'Ottocento prima che nascesse la linguistica storica vera e propria.
Ma c'è dell'altro e di più significativo nel lungo capitolo che stiamo esaminando: esso, in tutta la sua interezza e in quasi tutte le sue pagine, è caratterizzato da un sostanziale atteggiamento di "dubbio, incertezza e riserve" dell'Autore.
Si presti attenzione alle seguenti affermazioni che vi si trovano:

"esistono larghe e profonde zone di perdurante incertezza ed oscurità: realtà negativa che delimita, e per molti aspetti condiziona, i fatti positivi" (pag. 406). "L'isolamento dell'etrusco rispetto a qualsiasi altro sistema o gruppo linguistico conosciuto [....] costituisce per noi una condizione negativa reale e determinante" (pagg. 408-409). "È chiaro che non potrebbe adattarsi all'etrusco una pura esposizione di nozioni grammaticali e lessicali [...] senza sottolineare la vastità del mare di incertezze dal quale esse vengono progressivamente affiorando" (pagg. 419-420). "Proprio la natura di quest'indagine per i suoi fondamenti e per i suoi procedimenti non ci consente vere e proprie "traduzioni" letterali se non per le iscrizioni più brevi e più semplici, e non senza punti di incertezze e lacune (ogni diversa pretesa di offrire, anche nell'evidenza tipografica, interpretazioni estese o compiute, di tipo "manualistico", ha il difetto di creare impressioni erronee, o alterate, di una cognizione che per molti aspetti è ancora sfumata e possibilistica)" (pag. 438). "Alla luce di quanto è stato finora esposto appare evidente che è impossibile ricostruire e trattare sistematicamente una "grammatica" della lingua etrusca nel senso generalmente inteso in ogni comune approccio manualistico. Esistono ancora troppe lacune e incertezze di fondo per consentire un discorso che vada oltre i limiti di una prudente delineazione dei dati acquisiti con maggiore evidenza e dei problemi che restano aperti alla discussione" (pag. 451); "noi ci troviamo a ragionare di una materia in molta parte oscura e sfuggente" (pag. 479). "Esistono (...) larghe zone di perdurante incertezza e oscurità nella conoscenza delle forme, nel significato delle parole, nella interpretazione dei testi. Questa realtà negativa condiziona e delimita in modo essenziale, come è ovvio, i fatti positivi".
Ed infine: "Conclusioni più precise trovano un ostacolo insuperabile nelle condizioni negative, già ripetutamente sottolineate, della estrema povertà e parzialità della documentazione, della malsicura conoscenza dei significati e delle funzioni, della impossibilità di stabilire una valida misura comparativa esterna, oltreché dell'assenza di qualsiasi luce storica sulle vicende che precedono e accompagnano il formarsi della lingua e della nazione etrusca" (21) (tutte le sottolineature in corsivo sono mie).

Inoltre si deve segnalare e sottolineare il fatto che è rarissima la pubblicazione di altri autori relativa alla lingua etrusca per la quale il Pallottino non dica che "è da consultarsi con ogni riserva" (cfr. ad es. le note delle pagg. 420 e 505).
I dubbi, le incertezze e le riserve che il Pallottino esprime in quasi tutte le 112 pagine di quel suo scritto da una parte ottengono l'effetto finale di sollevare attorno alla lingua etrusca tutto un polverone di confusione e di oscurità che spinge il comune lettore a ritenere che di questa lingua non si sappia proprio nulla di sicuro e quindi contribuisce a che perduri ancora perfino tra individui di elevata cultura umanistica la ricorrente e falsa idea che la lingua etrusca sia "tutta un mistero", sia una "sfinge indecifrabile" (22). Dall'altra parte quel sostanziale e continuo atteggiamento di dubbio elevato a sistema assume anche un carattere "deprimente" e perfino "deterrente" nei confronti di chi si appresti ad un primo approccio con la lingua etrusca: perché egli prova la spinta a non volersi interessare affatto della lingua etrusca, perché "non se ne conosce nulla e non se ne conoscerà mai nulla"...
Si deve poi considerare con attenzione che questo "dubbio sistematico" del Pallottino si ritrova solamente nella Parte III del suo manuale, quella dedicata al "Problema della lingua", e negli scritti linguistici su citati, mentre non lo si ritrova per nulla in tutte le altre parti ed in tutti gli altri suoi numerosi scritti. E la conclusione ovvia e necessaria che dobbiamo trarne è questa: l'archeologo Pallottino non credeva al valore dimostrativo della glottologia o della linguistica storica. Dal che si deve ulteriormente concludere che egli sarà pure stato un ottimo archeologo, ma non è stato affatto un linguista; anzi, non solo non ha mai acquisito una preparazione linguistica di valenza sufficiente perché si prendano come buone le sue analisi linguistiche, ma addirittura non sempre è stato in grado di afferrare l'esatto valore delle analisi e delle proposte che gli autentici linguisti hanno fatto intorno alla lingua etrusca. È significativa, al contrario, la buona accoglienza che egli ha mostrato di aver fatto a quel centone disordinato, disorganico e acritico di toponimi cosiddetti "mediterranei" di A. Trombetti, Saggio di antica onomastica mediterranea, pubblicato negli "Studi Etruschi" (23).
Questi sono dunque il grado e la qualità della cultura linguistica che da un quasi un esatto cinquantennio regna fra gli archeologi italiani in ordine alla lingua etrusca. E verrà spontanea questa domanda: "E gli allievi e successori del Pallottino?". Ovviamente tutti seguono la sua scia e, se si interessano di lingua etrusca, si limitano a tentare di fare "interpretazioni" (non "traduzioni"!) di piccole e semplicissime iscrizioni etrusche. Solamente alcuni hanno osato comporre e pubblicare manualetti sulla lingua etrusca, ad uso dei loro allievi o di carattere divulgativo; ma si tratta di lavori che lo stesso Pallottino si è limitato a citare in due note con evidente disagio e con numerose "riserve" (pagg. 420, 438).
Addirittura il Pallottino non ha nemmeno citato un libro relativo alla lingua etrusca composto da un linguista di professione, Giuliano Bonfante, assieme con la figlia Raissa, Lingua e cultura degli Etruschi, che era comparso in lingua inglese già un anno prima (24). Per il vero questo lavoro del Bonfante non presentava nulla di nuovo e soprattutto di personale sulla lingua etrusca, però aveva il pregio di offrire una sintesi di quanto risultava ormai acquisito sulla lingua etrusca con una prospettiva non più "archeologica", bensì veramente "linguistica" ed anche "grammaticale"; prospettiva "grammaticale" che però il Pallottino respingeva e condannava senza remissione...

10. Parlando in termini generali, dico che non deve sfuggire il fatto che gli archeologi godono di un potere politico ed anche economico che nessun altro specialista delle scienze umanistiche possiede, tanto meno i linguisti. Si consideri che gli archeologi sono gli scavatori, gli illustratori ed i custodi di molti dei cosiddetti "beni archeologici ed artistici" di quella patria di elezione dell'archeologia e dell'arte che è l'Italia. Pertanto essi interloquiscono con i politici e gli amministratori di tutti i livelli e di tutti i luoghi, i quali mettono a loro disposizione grandi somme di danaro dello Stato, delle Regioni, delle Province e perfino dei più piccoli Comuni. In virtù di questo loro immenso potere politico ed economico gli archeologi hanno grande facilità di organizzare congressi o convegni di studio, allestire mostre e metter su pubblicazioni e periodici.
Anche in virtù delle grandi disponibilità di mezzi economici, gli archeologi hanno facilissimo accesso alle case editrici per le loro pubblicazioni. D'altronde, se pure non ci fossero a disposizione i mezzi economici di origine pubblica, è cosa notissima che gli editori tanto odiano i noiosi libri scritti dai linguisti, quanto apprezzano e richiedono i libri composti dagli archeologi, ricchi come sono di numerose e belle fotografie e di numerosi e bei disegni.
Con tutto questo loro immenso potere politico ed economico gli archeologi come hanno grande facilità ad esporre e divulgare le loro tesi personali, così hanno il potere e la possibilità di fare la terra bruciata a chi la pensa diversamente da loro... Proprio come hanno fatto relativamente alla lingua etrusca: conclamazione ed enfatizzazione delle loro tesi e scomunica o silenzio totale sulle tesi altrui...

11. Se questa è la reale situazione degli studi relativi alla lingua etrusca dalla parte degli archeologi italiani, è spontaneo chiedersi quale sia invece la situazione dalla parte dei linguisti propriamente detti. È presto detto: bisogna distinguere questi linguisti in due gruppi molto differenti. I linguisti che si sono adattati alle direttive della scuola archeologica italiana, mai interessandosi della "origine degli Etruschi", mai facendo connessioni o "comparazioni" dell'etrusco con altre lingue e mai tentando "etimologie", sono stati sempre bene accetti, incoraggiati e valorizzati da parte degli archeologi con l'invito ai loro congressi, con l'incarico di effettuarvi relazioni e lezioni ed inoltre con la pubblicazione delle loro opere. I linguisti invece che hanno continuato a ritenere legittimo il problema della origine degli Etruschi e precisamente della loro provenienza dall'Asia Minore, e hanno effettuato o tentato connessioni o comparazioni dell'etrusco con altre lingue, sono stati tenuti da parte, completamente ignorati, mai invitati ai congressi e perfino ostacolati nelle loro pubblicazioni con pesanti interventi presso le case editrici e perfino sugli organi di stampa... (25) Molto significativo in proposito è il fatto che al "II Congresso Internazionale di Etruscologia", che si è tenuto a Firenze nel 1985 (con un sostegno finanziario enorme!), sono stati chiamati a tenervi relazioni alcuni linguisti che si inquadrano alla perfezione nelle tesi della scuola archeologica italiana, mentre non è stato invitato nessuno dei linguisti che ritengono che anche la lingua etrusca sia comparabile con altre lingue e precisamente con antiche lingue dell'Asia Minore...
La conclusione ultima di tutto il mio dire è questa: la scuola archeologica italiana ha indubbiamente acquisito in quest'ultimo mezzo secolo notevoli meriti nel mandare avanti gli studi sulla civiltà etrusca dal punto di vista archeologico, artistico, storiografico e storico-religioso, mentre rispetto allo studio della lingua etrusca ha acquisito pochi meriti, ma anche e soprattutto molti e notevoli demeriti. Richiamo ancora e sottolineo quella grossa anomalia consistente nel fatto che intorno alla lingua etrusca, documentata da più di 10 mila iscrizioni ed anche da testi abbastanza consistenti come il Liber linteus della Mummia di Zagabria, i progressi ermeneutici e di studio sono stati in questi ultimi decenni quasi impercettibili.
Che i linguisti propriamente detti prendano consapevolezza di questo stato di cose è un loro preciso diritto ed anche un loro impellente dovere (26).


(1) Cfr. M. Pittau, Gli Etruschi e Cartagine - i documenti epigrafici, negli "Atti dell'XI convegno di studio L'Africa Romana", Cartagine 1994 (Ozieri 1996), pagg. 1657-1674; Le lamine di Pirgi - nuove acquisizioni ermeneutiche; Gli Etruskische Texte di Helmut Rix, negli "Atti del Sodalizio Glottologico Milanese", XXXV-XXXVI (1994 e 1995), pagg. 236-237, XXXVII (1998), pagg. 71-75 (Brescia 1996, 1998).
(2) Vedi M. Pallottino, La lingua degli Etruschi, in Autori Vari, Popoli e Civiltà dell'Italia antica, Roma 1978, vol. VI, pagg. 440, 460.
(3) Cfr. ad es. J. Friedrich, Decifrazione delle scritture scomparse, Firenze 1961; P. E. Cleator, Linguaggi perduti, Milano 1964; M. Pope, La decifrazione delle scritture scomparse, Roma 1978.
(4) Cfr. V. Pisani, Le lingue dell'Italia antica oltre il latino, II ediz., Torino 1964, pag. 305; in "Studi Etruschi", XXXIII (1965), pag. 533.
(5) Cfr. M. Pallottino, Etruscologia, VII ediz., Milano 1984, pag. 406; R. Staccioli, Il "mistero" della lingua etrusca, Roma 1977, pag. 16.
(6) Cfr. M. Pittau, La Lingua Etrusca - grammatica e lessico, Nuoro 1997 (Libreria Dessì, Sassari), pagg. 27-28.
(7) Oltre Erodoto essi sono: Ellanico, Timeo di Taormina, Anticle di Atene, Scimmo di Chio, Scoliaste di Platone, Diodoro Siculo, Licofrone, Strabone, Plutarco, Appiano, Catullo, Virgilio, Orazio, Ovidio, Silio Italico, Stazio, Cicerone, Pompeo Trogo, Velleio Paterculo, Valerio Massimo, Plinio il Vecchio, Seneca, Servio, Solino, Tito Livio, Tacito, Festo, Rutilio Namaziano, Giovanni Lidio, C. Pedone Albinovano. Anche dando per scontato che molti di questi autori in realtà si sono fatti la loro opinione su quella degli autori precedenti, pure questa loro adesione ai precedenti è per se stessa molto significativa. Inoltre è molto importante e significativo il fatto che alcuni di questi autori antichi riportano particolari di quella trasmigrazione che non figurano affatto nel racconto di Erodoto.
(8) Mi limito a citare quelli più famosi: A. Akerström, C. Battisti, J. Bérard, V. Bérard, V. Bertoldi, K. Bittel, R. Bloch, A. Boethius, P. Bosch Gimpera, W. Brandenstein, E. Brizio, O. Carruba, R.S. Conway, A. Della Seta, C. de Palma, P. Ducati, G. Dumézil, M. Durante, R. Dussaud, A. Furumark, G. Ghirardini, W. Georgiev, A. Grenier, J. Heurgon, A. Hus, G. Körte, H. Krahe, P. Laviosa Zambotti, M. Lejeune, D.R. Mac Iver, G. Maddoli, S. Mazzarino, B. Modestov, O. Montelius, L.R. Palmer, G. Patroni, G.B. Pellegrini, A. Piganiol, M. Pittau, I. Pohl, G. Pugliese Carratelli, H. Rix, G. Säflund, F. Schachermeyr, J.B. Ward Perkins.
(9) M. Pallottino, Saggi di antichità, Roma 1979, vol. I, pagg. 158, 164, 165.
(10) Cfr. M. Pittau, Origine e parentela dei Sardi e degli Etruschi - saggio storico-linguistico, Sassari 1995 (Delfino Editore), pag. 243.
(11) J. Bérard, La colonisation grecque de l'Italie méridionale et de la Sicilie dans l'antiquité, Paris 1957, trad. ital. La Magna Grecia - storia delle colonie greche dell'Italia meridionale, Torino 1963, pag. 493.
(12) In "Studi Micenei ed Egeo-Anatolici", VII, 1968, pagg. 7-60.
(13) Lo si senta del resto in "Paleontologia linguistica", Atti VI Convegno Internazionale di Linguisti, Milano 1974 (Brescia 1977), pag. 151.
(14) In "Paleontologia linguistica" cit., pagg. 137-150.
(15) Rispettivamente Roma 1979, Editrice Nagard; e in "Linguistique Balkanique", XXVII (1984), I, pagg. 5-35.
(16) M. Pittau, Lessico Etrusco-Latino comparato col Nuragico, Sassari 1984; Testi Etruschi tradotti e commentati, Roma 1990, Bulzoni Editore; La Lingua Etrusca - grammatica e lessico, Nuoro 1997 (Libreria Dessì, Sassari).
(17) In "The Journal of Indo-European Studies", Washington 1989, Monograph no. 5, pagg. 363-383.
(18) Vol. VI, pagg. 429-468. Vedi nota 2.
(19) "Studi Etruschi", vol. 61, 1995 [1996], pagg. 210-232.
(20) Nell'opera Etruscologia lo cita una sola volta in una nota della pag. 420.
(21) M. Pallottino, La lingua degli Etruschi cit., pagg. 431, 460, anche pagg. 435, 436.
(22) Una analoga impressione di confusione generale il lettore trae dalla lettura dell'altra cit. opera del Pallottino, L'origine degli Etruschi.
(23) "Studi Etruschi", XIII (1939), pagg. 263-310; XIV (1940), pagg. 183-260.
(24) G. Bonfante - L. Bonfante, Lingua e cultura degli Etruschi, Roma 1985; The Etruscan Language. An Introduction, Manchester 1983.
(25) Trattamenti subiti effettivamente anche dall'Autore del presente scritto.
(26) Comunicazione presentata nell'IX Convegno Internazionale di Linguisti, Milano 8-9-10 ottobre 1998, con Atti di prossima pubblicazione.