PASSARE IN CAVALLERIA
DARSI ALL’IPPICA

Le espressioni «passare in cavalleria» e «darsi all’ippica» in effetti sono di uso abbastanza frequente nell’odierno parlare italiano ed invece esse non hanno finora trovato un corrispondente spazio nei vocabolari e dizionari della lingua italiana. Senza pretesa di essere stato esauriente nella mia ricerca, è un fatto che ho trovato le due espressioni solamente in questi quattro vocabolari: lo Zingarelli, Vocabolario della Lingua Italiana, XII edizione a cura di M. Dogliotti e L. Rosiello, Bologna 1995, editore Zanichelli; Vocabolario della Lingua Italiana, Istituto della Enciclopedia Italiana, voll. I-V, Roma 1986-1994; Grande Dizionario della Lingua Italiana Moderna, Milano 1998-1999, editore Garzanti; T. De Mauro, Grande Dizionario Italiano dell’uso, Torino 1999, editore UTET. Inoltre la spiegazione che questi quattro vocabolari danno delle due espressioni è in effetti quanto mai stringata e perfino fugace.
La più lunga è quella presentato dallo Zingarelli: «Passare in cavalleria, (fig.) di cosa a suo tempo convenuta, non farsene più nulla o, di oggetto materiale, sparire, essere sottratto o non reso». «Darsi all’ippica, (fig.) cambiare mestiere, andare a fare qualche altra cosa, usato specialmente in espressioni esclamative, come invito ironico a chi dimostra la propria incapacità in qualche cosa».
Ma il fatto più notevole è che nessuno dei quattro vocabolari spende una sola parola per spiegare l’origine delle due espressioni e precisamente la grossa metafora che sta al loro fondo. Ebbene, la spiegazione dell’origine delle due espressioni è, a mio avviso, la seguente.
Si deve riandare al periodo della I guerra mondiale. Secondo il suo costume, l’esercito italiano si presentò grandemente impreparato alle esigenze della guerra già in corso da circa un anno. Eppure aveva avuto appunto circa un anno di preavviso, dato che era quasi certo che sarebbe entrato in guerra, anche se non si sapeva se avrebbe combattuto nella parte della Triplice Alleanza oppure in quella della Triplice Intesa. Il 24 maggio del 1915 l’esercito italiano entrò in guerra dalla parte della Triplice Intesa avendo mobilitato e mosso anche interi reggimenti di Cavalleria.
L’arma della Cavalleria aveva ormai fatto il suo tempo e ormai non serviva quasi più a nulla, dato che due sole mitragliatrici – arma già in possesso di tutti gli eserciti europei – avrebbero potuto fermare ed anche distruggere un intero reggimento di Cavalleria.
A maggior ragione l’arma della Cavalleria si dimostrò quasi del tutto inutile, quando quasi subito il conflitto europeo si trasformò in “guerra di posizione”, la quale bloccò milioni di soldati nel sistema complesso delle trincee scavate sul terreno e difese da fossati e da lunghi reticolati di filo spinato.
In queste condizioni tattiche e strategiche al Comando generale dell’esercito italiano non restava altra soluzione per la Cavalleria: lasciarla nelle retrovie, del tutto estraneata dalle azioni di guerra, nella prospettiva che le azioni belliche si trasformassero da “guerra di posizione” in “guerra di movimento”; cosa che di fatto non avvenne mai nel prosieguo del conflitto.
Pertanto, nella considerazione dei veri combattenti, soprattutto dei fanti delle trincee, gli appartenenti alla Cavalleria erano altrettanti “imboscati”, imboscati da due punti di vista: o per il semplice fatto di appartenere a reparti che erano nelle retrovie, anche parecchi chilometri lontani dalle linee di fuoco, oppure per il fatto di essere “figli di papà”, mandati proprio in Cavalleria al fine di starsene “imboscati”. E da questo fatto appunto nascevano la forte antipatia e il grande disprezzo che i fanti nutrivano nei confronti dei cavalleggeri e da questa circostanza per l’appunto nacque l’espressione «passare in cavalleria», col significato originario di “imboscarsi”, “nascondersi” e dopo di “nascondere” e “trafugare”.
L’altra espressione «darsi all’ippica» presentava una certa ricercatezza di linguaggio ed insieme mirava ad una finta velatura del suo significato fortemente negativo, ma in realtà questo restava tutto intero: quello di un invito sprezzante e ironico prima ad andarsi ad “imboscare”, dopo ad andare a svolgere una attività di poco o di nessun valore.*

Massimo Pittau
www.pittau.it

*Studio già pubblicato nella rivista «Il Governo delle cose», Firenze 2005, num. 37, pagg. 69-70.