Navicella di bronzo rinvenuta nella “Tomba del Duce”
di Vetulonia (Toscana) del sec. VII a. C.
CREDENZE FUNERARIE E RELIGIOSE
DEI NURAGICI E DEGLI ETRUSCHI
È del tutto certo che le “credenze e le usanze funerarie”
costituiscono il nucleo essenziale di una etnia, la radice prima e
principale di un “popolo”. Ciò avviene perché, nell'uomo come “essere
vivente”, la “vita” in effetti costituisce una “lotta contro la morte”,
quella che incombe in maniera continuativa e inesorabile su di lui, già
dal suo primo nascere e lungo l'intero arco della sua esistenza.
Oltre a ciò le credenze e le usanze funerarie, col loro carattere di
radicalità ed essenzialità, in effetti costituiscono la causa prima e
principale del nascere della “religione” fra i popoli, con la credenza
in una vita dopo la morte e nell'esistenza di divinità che reggono e
regolano questa “vita futura”, ad esempio premiando gli uomini onesti e
castigando quelli disonesti.
Anche in virtù di questa loro stretta connessione con la
“religione”, le credenze ed usanze funerarie sono tra gli eventi umani
che si mantengono più a lungo nella storia dei rispettivi popoli e
inoltre quelli che costituiscono la migliore prova della parentela di
un popolo con un altro.
Ed è appunto questo il caso anche degli antichi popoli del
Mediterraneo centro-occidentale, quello Nuragico della Sardegna e
quello Etrusco dell'Italia centrale, popoli che vivevano in stretta
vicinanza geografica fra loro: esistono numerose, evidenti e importanti
prove di una notevole uguaglianza delle credenze e delle usanze
funerarie di questi due popoli, le quali forniscono chiare e
consistenti prove della loro effettiva parentela genetica e della loro
connessione culturale e storica.
Le navicelle funerarie
C'è da premettere che dal più lontano passato sino alla fine del
secolo XIX dopo Cristo, gli uomini si sono mossi nel pianeta in maniera
preponderante con la “navigazione”. Costituisce una evidente prova di
ciò anche il fatto che il verbo italiano arrivare – assieme coi
corrispondenti delle altre lingue romanze o neolatine - deriva dal
linguaggio marinaro, col significato originario ed effettivo di
“attraccare”, cioè di “raggiungere la riva”, dal lat. ad ripam venire.
Da parte di alcuni antichi popoli del Mediterraneo, gli Egizi, i
Greci, i Romani, gli Etruschi e pure i Nuragici, si riteneva che anche
l'ultimo viaggio che effettuava l'uomo dopo la morte avveniva con una
“barca” o una “navicella”. Il primo precedente di questa credenza molto
diffusa probabilmente risaliva agli Egizi, dei quali sono note appunto
le “navicelle funerarie”. Ma – come comunemente si sa - era molto
diffusa tra i Greci e i Romani pure la credenza nel demone infernale Caronte,
il quale traghettava con una barca o una navicella i defunti attraverso
il fiume Acheronte o la palude Stigia verso l'ultima dimora degli
Inferi. Come compenso del traghettatore esisteva l'usanza di mettere
una moneta nella bocca del defunto oppure due sugli occhi (queste
servivano anche per tenergli abbassate le palpebre).
Questa credenza ed usanza esisteva anche tra i Sardi Nuragici:
attorno a molti nuraghi dell'Altipiano di Abbasanta sono frequenti le
urnette cinerarie di trachite che in un angolo della vaschetta hanno un
piccolo ripostiglio per porvi appunto la moneta da pagare a Caronte (SardNur¹ fig.
23). Però nelle zone interne della Sardegna l'usanza ha resistito fino
a mezzo secolo fa: secondo quanto mi ha riferito l'etnologa Dolores
Turchi, in una tasca del defunto, prima del suo seppellimento, si
soleva mettere una moneta.
* * *
Fra i reperti della civiltà nuragica, a parte i nuraghi come
costruzioni, quelli più conosciuti sono senza dubbio le “navicelle di
bronzo”, continuamente riprodotte da disegni e da fotografie, ammirate
e delucidate fin nei minimi particolari e – purtroppo – anche oggetto
di scavi clandestini, di furti e di ampio commercio illegale. Alle
navicelle di bronzo nuragiche vanno aggiunte le più semplici e anche
rudimentali navicelle di creta, di cui ormai è stato raccolto un
discreto numero nei nuraghi e nelle tombe nuragiche.
All'ampia e meritata fama delle navicelle di bronzo nuragiche
purtroppo non corrisponde una esatta opinione circa la loro
destinazione e la loro nascosta simbologia: la quale era – a mio fermo
giudizio - una destinazione e una simbologia “funeraria”. Le
navicelle nuragiche di bronzo erano sistemate nelle tombe dei
capitribù, dei loro figli, dei sacerdoti e dei più elevati personaggi
delle tribù come offerta ai defunti per il loro ultimo viaggio verso il
mondo degli Inferi. Le modeste navicelle di creta invece erano
offerte, sempre funerarie e simboliche, fatte per i comuni defunti
delle varie tribù.
In alcune navicelle nuragiche di bronzo si trovano anche figurine di
animali, bovini ovini suini e soprattutto colombe: si trattava di
animali che venivano offerti in sacrificio alle divinità infernali
affinché accogliessero con benevolenza il defunto che stava arrivando
sulla navicella. Ciò in esatta corrispondenza con le figurine singole -
sempre di bronzo – di bovini, ovini, suini e colombe che venivano
offerti in sacrificio alle varie divinità, come simbolo e in
sostituzione di vittime animali effettive da sacrificare ad esse.
Quasi tutte le navicelle funerarie di bronzo hanno la prora costituita dalla protome o testa di un animale cornuto: toro, cervo, daino, muflone, ariete, caprone. Orbene,
a prescindere dal fatto che quasi tutte le navi dei popoli antichi
avevano una prora costituita dalla figura di un animale, per quelle
nuragiche sono da ricordare alcune particolari credenze. In primo luogo
c'è da precisare che la frequente presenza nei relitti della civiltà
nuragica della “protome bovina” (ad esempio nella pianta delle “tombe
di gigante”) era conseguente al fatto che molti popoli antichi
ritenevano che il Sole e la Luna fossero due “divinità cornute”, la
Luna per il suo “arco calante o crescente”, il Sole per le sue
apparizioni nelle eclissi parziali.
In secondo luogo, Diana o Iana, la dea latina della
luna, della notte e quindi della morte, veniva dagli antichi intesa
anche come una navicella che navigava nel cielo appunto per il
trasporto dei defunti. La ritenevano inoltre armata di un “arco” -
sempre quello costituito dall'astro calante o crescente - arma con la
quale Diana andava alla caccia di “cervi”, cioè di un animale
pluricornuto. Oltre a ciò sappiamo che l'arco lunare era ritenuto dagli
antichi essere la “falce” con la quale la Morte procedeva a falciare e
a far morire gli uomini.
Le navicelle nuragiche hanno questa sola destinazione e questa unica
simbologia “funeraria”, ragion per cui hanno errato in malo modo alcuni
autori recenti i quali, in base alla forma delle navicelle di bronzo,
hanno creduto di poter ricostruire quelle che sarebbero state le reali
navi adoperate dai Nuragici, sia navi da guerra sia navi commerciali da
trasporto. Questo tentativo di ricostruzione era destinato al
fallimento completo, dato che nessuna, proprio nessuna nave reale che
fosse stata uguale alle navicelle nuragiche sarebbe stata in grado di
navigare effettivamente. Inoltre è già molto significativa la
circostanza che in queste navicelle non compaiono mai il timone, i
remi, le vele e i rostri, non vi compaiono mai il timoniere né i
rematori.
Che le navicelle nuragiche avessero solamente una destinazione e una
simbologia “funeraria” è dimostrato pure dal fatto che in molte di esse
si vede bene che servivano come “lucerne”: offrono cioè una cavità
adatta e sufficiente per accogliere l'olio con lo stoppino ed hanno
spesso un anello per essere appese a una parete. Ed è pure evidente che
la circostanza che queste navicelle nuragiche venissero usate anche
come “lucerne sacre” offerte in voto, non pregiudica per nulla la loro
simbologia “funeraria” di fondo. Alcune navicelle di bronzo presentano
adesso i segni di aggiustature metalliche, le quali saranno state
effettuate in epoca molto più recente da proprietari che le avranno
adoperate per il comune uso profano.
Sembra che siano state trovate globalmente circa 110 navicelle
nuragiche e già questo numero elevato si spiega molto meglio in una
prospettiva “funeraria” (la morte coinvolge tutti gli uomini!) che non
in una prospettiva “profana” di semplice dono fra alcuni uomini.
L'uso delle navicelle funerarie è durato in Sardegna fino all'epoca
del dominio romano sull'isola, come dimostra il fatto che una navicella
di bronzo porta impressa la sigla latina ENP: forse questa potrebbe essere un saluto di commiato al defunto, da interpretarsi come la sigla della frase esto navigatio plana «sia la (tua) navigazione tranquilla».
* * *
È ormai abbastanza noto che navicelle di bronze e pure di creta di
tipo nuragico sono state rinvenute anche in tombe etrusche e
precisamente a Populonia, Vetulonia, Bisenzio, Ostia, Cecina e di
recente una a Gravisca. In una molto antica di Vetulonia ne sono state
rinvenute addirittura tre, nella “Tomba delle navicelle” appunto.
Globalmente ne sono state rinvenute in Etruria circa 20, e questo
numero è già un fatto assai degno di nota.
Oltre a ciò, nelle scene di commiato rappresentate in urne funerarie
etrusche talvolta è raffigurata una barca come mezzo di trasporto del
defunto e inoltre nel Museo Archeologico di Arezzo c'è la statua di un
defunto, che risulta disteso dentro una barca, il tutto in un unico
masso di pietra.
Dal ritrovamento di tutte queste “navicelle di tipo nuragico” in
tombe etrusche non si è sino al presente tratta la sua logica e
necessaria conclusione. Finora esse sono state interpretate come
semplici “oggetti di lusso” di pura provenienza commerciale, deposti
nelle tombe come corredo funerario di grandi personaggi. Senonché
questa tesi si deve respingere con decisione: siccome quelle
navicelle avevano dietro di sé una precisa “ideologia funeraria” -
quella appunto dell'anima del defunto che faceva il suo ultimo viaggio
verso l'oltretomba su una nave -, se esse sono state rinvenute in tombe
etrusche, è evidente che in queste risultavano sepolti individui che
avevano la medesima ideologia funeraria dei Nuragici. Pertanto è chiaro
che quei defunti etruschi erano della medesima etnia dei Sardi
Nuragici, o almeno erano imparentati geneticamente e culturalmente coi
Sardi Nuragici.
Su questo argomento non si può non pensare che abbiano raggiunto il
piano del ridicolo quegli autori recenti che hanno scritto che le
navicelle di bronzo di tipo nuragico trovate dentro tombe etrusche
erano “lussuosi oggetti di regalo” che si scambiavano tra loro i membri
delle aristocrazie nuragiche con quelli delle aristocrazie etrusche:
siccome – obietto io - gli uni e gli altri conoscevano bene la valenza
e la simbologia “funeraria” di quelle navicelle, è come se i membri
delle odierne famiglie benestanti si scambiassero tra loro, in
occasione delle feste di Natale, statuine di metallo prezioso
rappresentanti “carri funebri”...
Le domos de janas
Le tombe rupestri sono dette in Sardegna domos de janas o gianas, con una denominazione che deriva appunto dalla già vista lat. Diana o Iana, divinità che, declassata in seguito dai cristiani, è diventata in Sardegna jana
col significato di “maga o strega” che abita appunto in quelle tombe.
Si deve però precisare che tombe scavate nelle rocce, del tutto simili
a quelle sarde, si trovano in tutte le terre del bacino del
Mediterraneo, per cui è molto azzardato trarre da esse conclusioni di
ordine cronologico fra loro e di parentela fra i rispettivi popoli.
Inoltre si deve precisare che le domos de janas della Sardegna
non risalgono tutte ai periodi prenuragici, paleolitico neolitico ed
eneolitico, ma risalgono anche al periodo propriamente nuragico, come
dimostra chiaramente il fatto che esistono numerosi nuraghi che hanno
tutt'intorno domos de janas. La età di queste tombe rupestri pertanto va studiata e dichiarata singolarmente e di volta in volta.
Sono certamente recenti e risalenti all'epoca nuragica quelle domos de janas
che sono più grandi e che mirano ad imitare le “abitazioni dei vivi”.
Sono “tombe a camera”, le quali hanno finestre, porte e pure un tetto
raffigurato da una trave centrale, sulla quale poggiano numerose tavole
laterali e talvolta presentano anche una colonna centrale che sostiene
la trave. Si tratta di “tombe a camera” nuragiche, le quali hanno un
esatto corrispettivo in “tombe a camera” che si rovano nell'area
dell'antica Etruria, come mostrano chiaramente i seguenti esempi di
quattro tombe, due nuragiche e due etrusche:
L’Accabbadora sarda e l’Atropo etrusca
È cosa ormai abbastanza nota che fino a circa mezzo secolo fa
esisteva in Sardegna, a livello popolare e in maniera nascosta o almeno
molto discreta, l'usanza della eutanasia” o “buona morte”, applicata
nei confronti di individui che fossero in lunga e penosa agonia. Questa
macabra operazione era in genere delegata a donne specializzate,
chiamate accabbadoras, che significa “finitrici”, “accoppatrici”, da accabbare
«terminare, finire, accoppare». Esse, in tutta segretezza e con
preliminari di carattere rituale, eseguivano la macabra operazione
anche con un martello fatto tutto di legno, col quale colpivano il
cervelletto oppure una tempia del malcapitato individuo. Un esemplare
di questo martello funerario esiste in una casa-museo di Luras,
villaggio della Sardegna centro-settentrionale.
In epoca recente ritengo di aver fatto un importante ritrovamento
che avvalora grandemente la mia tesi della connessione e parentela tra
i Sardi Nuragici da un lato e gli Etruschi dall’altro: nella scena che
risulta incisa in uno specchio etrusco di Perugia risultano figurati
quattro personaggi mitologici, Atalanta, Meleagro, Atropo e Turan (ET, Pe S 12). Atropo (= «l’Inflessibile», etr. Athrpa)
era una delle tre Parche e precisamente quella che tagliava il filo
della vita, cioè decideva e determinava il momento della morte di
ciascun individuo umano. Ebbene nella scena dello specchio etrusco
Atropo tiene con la mano destra un martello, alla maniera dunque della accabbadora sarda, che determinava la morte di un individuo con un martello! (vedi mio studio L’Accabbadora sarda e l’Atropo etrusca).
Oltre a ciò, abbiamo alcune raffigurazioni pittoriche e plastiche,
su pareti di tombe o di urne funerarie etrusche, di Caronte e di altri
demoni infernali, i quali risultano forniti di un grosso martello.
E dunque è evidente che sia fra i Nuragici sia fra gli Etruschi il
“martello”, oltre che essere uno strumento di lavoro, aveva pure una
funzione funeraria, nel senso che presso quelli e presso questi era uno
strumento di “morte”.
E s’impone pertanto questo problema: perché la scelta del martello
come strumento con cui dare la morte a un individuo agonizzante?
Certamente perché, in primo luogo, questo era lo strumento più
immediato e inoltre non era cruento, ma quasi certamente nella scelta
fatta entrava pure un’altra motivazione, simbolica e storica.
A questo proposito è da ricordare l'usanza che avevano gli Etruschi di infiggere - ovviamente con un martello - un chiodo nella parete del tempio della dea Northia,
presso Orvieto, per indicare il passare degli anni. Questa usanza ha un
notevole peso dimostrativo in ordine alla vecchia disputa sulla
“origine degli Etruschi”: provenivano essi dalla Lidia, nell’Asia
Minore, come dice Erodoto e con lui altri 30 autori, greci e latini,
oppure erano autoctoni dell’Italia, come dice il solo Dionigi di
Alicarnasso? Ebbene, anche l’usanza degli Etruschi dell’affissione del chiodo annuale costituisce una forte prova a favore della tesi erodotea: il contare gli anni, infatti, implicava necessariamente un terminus a quo, ossia una data di inizio di tale usanza e questa era quasi sicuramente la data dell’arrivo degli Etruschi nell'Italia centrale, probabilmente nel 968 avanti Cristo. Se invece gli Etruschi fossero stati presenti in Italia ab origine, non avrebbe avuto alcun senso iniziare a contare il passare degli anni!
E pure in Sardegna restano ancora sia reperti archeologici sia
reperti linguistici di quella usanza di iniziare a contare gli anni, a
dimostrazione del fatto che pure i Sardi Nuragici tenevano a contare
gli anni ad iniziare dal loro arrivo in Sardegna, pur'essi dalla Lidia.
In primo luogo c'è da ricordare che “chiodi votivi” sono stati
rinvenuti sia nel santuario nuragico di Santa Vittoria di Serri sia
nelle rovine di Nora. In secondo luogo esiste tuttora nella Sardegna
interna la locuzione pònnere unu cravu in su muru «mettere un chiodo nel muro» per significare la chiusura definitiva di una data questione. Anche
i Sardi Nuragici dunque conservavano la memoria storica della data del
loro arrivo dalla Lidia nell'Isola, circa nel 2500 avanti Cristo (StSN
275). E tutto questo costituisce una chiara e forte prova a favore
della mia tesi della connessione e parentela fra i Sardi Nuragici da
una parte e gli Etruschi dall'altra.
Se ne deduce dunque che sia per gli Etruschi sia per i Nuragici
affiggere un chiodo con un martello significava dichiarare chiuso un
anno, dichiarare chiusa una questione, dichiarare la fine e la morte di
un uomo in lunga e penosa agonia.
L’uccisione dei vecchi in Sardegna
Era una forma di “eutanasia” anche la “uccisione dei vecchi”,
attestata pur'essa fra i Nuragici. Riporto la notizia di questa usanza
come viene attribuita allo scrittore greco-siceliota Timeo [FHG, III, 28, pg. 199 e anche 29 (Tzetzes, in Lycophr., 796)]:
«Timeo dice che colà [in Sardegna] i figli sacrificano a Kronos i
loro genitori di oltre 70 anni ridendo e percuotendoli con bastoni e
spingendoli verso dirupi profondi».
Su questa particolare usanza si deve precisare che essa è stata
propria di molti popoli antichi e primitivi: la praticavano gli
abitanti dell'isola di Ceo nel Mar Egeo (Strabone X 6; Aeliano, Var. Hist. III 37; Valerio Massimo II 6, 8), gli Sciti (Diodoro IV 26; Prudenzio, contra Symmacum
2, 292-295), i Massageti (Erodoto I 216); la praticavano anche gli
Eschimesi fino a un secolo fa, lasciando morire di assideramento i
vecchi chiusi negli "iglò".
La giustificazione razionale che era al fondo di questa usanza,
stava nel fatto che il gruppo famigliare o la tribù, in continua e
assillante lotta per la propria sussistenza, vi ricorreva nei confronti
di individui i quali, a causa della loro età avanzata, non fossero più
in grado di sostentarsi da se stessi con la caccia o la pesca e anche a
causa del grave impedimento che essi costituivano per la tribù nel suo
continuo spostarsi per esigenze di caccia, di pascolo o di pesca.
Si deve supporre che una operazione così grave e drammatica come
questa dell’uccisione dei vecchi da parte dei loro stessi figli sarà
stata rarissima, dato che in quei lontani tempi gli individui che
arrivavano all'età di 70 anni saranno stati di certo pochissimi.
Inoltre si sarà svolta in un clima di totale e profonda religiosità;
ciò anche al fine di dare ai primi un certo qual conforto religioso per
la dura sorte che subivano, ai secondi una certa tacitazione morale del
loro agire crudele. E infatti il testo greco citato riferisce che i
vecchi venivano «sacrificati a Kronos», cioè al dio – identificato poi
col latino Saturno – che regolava la vita e la morte degli uomini.
Nel recinto sacro di Monte Baranta di Olmedo (SS), che è di
avanzata epoca nuragica e nient'affatto risalente all'età del rame –
come è stato scritto con grande superficialità - si trova un edificio
circolare grande quanto un piccolo nuraghe, ma non lo è affatto, sia
perché non risulta che abbia mai avuto la copertura a tholos,
sia perché ha un largo tratto del muro di chiusura del tutto aperto a
un dirupo a strapiombo; è insomma a forma di ferro di cavallo. Si
intravede che l’edificio servisse per iniziare e portare a termine il
sacrificio dei vecchi, sia effettuando su di essi preliminari atti
rituali, sia infine precipitandoli nel dirupo.
Lontani ricordi della uccisione dei vecchi si trovano in leggende
documentate in varie località della Sardegna: Macomer, Orotelli,
Oliena, Gairo, Lanusei e in Gallura.
L’uccisione dei vecchi nella Roma antica
Tutto ciò premesso si deve segnalare che, su testimonianza di
parecchi autori latini, praticavano la uccisione dei vecchi pure i
Romani dei tempi antichi, e precisamente sui vecchi sessantenni
buttandoli dal ponte Sublicio nel Tevere: sexagenarios de ponte deicere (Paolo-Festo 40.25 L; 334 M:) e ciò facevano sacrificandoli pur'essi a Saturno (Lattanzio, Div. Inst. I, 21, 6; Epist. 18, 2). Il poligrafo latino Festo parla dei Romani dei tempi antichi e, più di preciso, dei primi aborigeni qui Romam incoluerint. Questi
molto probabilmente si debbono intendere gli Etruschi, dato che risulta
quasi certo che Roma, a parere di “molti scrittori” - come riferisce
Dionigi di Alicarnasso (I, 29, 2) - era stata fondata proprio dagli
Etruschi (vedi mio studio La città di Roma fondata dagli Etruschi?).
Su questo argomento sono da farsi due precisazioni: I) Il lat. sexagenarios
si può intendere sia coloro che avessero raggiunto i 60 anni, sia
coloro che avessero l'età fra i 60 e i 70 anni. II) È molto probabile
che la credenza dei Nuragici che i 70 anni fossero il limite normale
della vita umana, esistesse pure fra gli Etruschi; lo mostrerebbe il
fatto che essa sarebbe finita con l'arrivare fino al toscano Dante
Alighieri, il quale dice di aver effettuato il suo viaggio immaginario
nell'oltretomba all'età di 35 anni, cioè a metà dei 70: «Nel mezzo del
cammin di nostra vita» (Inferno I, 1).
Conclusione ultima di questo mio lungo discorso: risulta dunque
dimostrato che i Nuragici della Sardegna e gli Etruschi dell'Italia
centrale avevano in comune fondamentali “credenze ed usanze funerarie”,
che erano chiaramente anche fondamentali “credenze ed usanze
religiose”. E queste credenze funerarie e religiose insieme, comuni
agli uni e altri altri, costituiscono una fortissima prova a favore
della tesi che io vado sostenendo da più di 30 anni: Nuragici ed
Etruschi erano due popoli affini e imparentati fra loro.
Massimo Pittau, 2015
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