commento glotto-filologico
Dalla circostanza che Salvatore Satta era nato a Nùoro nel
1902 ed inoltre da diversi riferimenti di cronaca che egli fa nel suo
romanzo «Il Giorno del Giudizio», è facile trarre la
conclusione che la "memoria storica" che lo scrittore squaderna in
questa sua opera rispetto alla sua città natale abbraccia gli
anni che vanno dal 1910 al 1930 circa. Siccome anche chi vi parla
è nato a Nùoro, sia pure vent'anni dopo il Satta,
è in grado di attestare che in quel trentennio nella nostra
cittadina vigeva un regime di bilinguismo o, meglio, un regime di
diglossia, intesa questa come un bilinguismo non esattamente
paritetico rispetto alle differenti circostanze di luogo, di tempo e
di argomento in cui e di cui si parlava. In quel trentennio tutti i
Nuoresi imparavamo la lingua sarda, nella sua varietà locale,
secondo le modalità naturali, cioè sia nel chiuso
dellambiente familiare sia in quello più largo del rione
e del paese, mentre per effetto dellobbligo scolastico - che
per il vero veniva da molti ragazzi disatteso in larga misura -
andava sempre più diffondendosi anche la conoscenza e
luso della lingua italiana. Nelle generazioni degli adolescenti
e dei giovani che affrontavamo gli studi nelle scuole medie inferiori
e superiori l'uso della lingua sarda e luso di quella italiana
si alternavano: parlavamo in sardo fra di noi, mentre usavamo
litaliano a scuola coi professori ed inoltre coi nostri
compagni peninsulari e infine con gli impiegati forestieri delle
varie amministrazioni pubbliche della città. Luso del
doppio codice linguistico vigeva anche in seno a quelle famiglie
nelle quali uno dei due genitori era peninsulare oppure il padre era
un diplomato o un laureato, che per lo stesso esercizio del suo
ufficio o della sua professione era costretto a fare largo uso della
lingua italiana.
Ebbene, la situazione linguistica della famiglia di Salvatore Satta
si lascia facilmente intravedere proprio dalla professione del padre,
quella di notaio. E' indubitabile che il notaio Satta usava il
dialetto nuorese con i suoi clienti nuoresi e barbaricini, mentre
redigeva gli atti notarili in lingua italiana. C'è da ritenere
pertanto che fra i membri della famiglia Satta Galfrè -
chiamata nel romanzo "Sanna Carboni" - i due codici si alternassero
continuamente, a seconda delle circostanze ed inoltre a seconda degli
argomenti trattati, ad esempio, le questioni relative
allamministrazione e conduzione della famiglia oppure quelle
relative agli studi che i sette figli seguivano nelle scuole
cittadine od in quelle di Sassari o di Cagliari. Questa situazione di
bilinguismo vigente in seno alla famiglia Satta viene accennata da un
passo del cap. XX pag. 279 del romanzo, in cui lAutore,
parlando del fratello Ludovico - il cui vero nome però era
Filippo - che faceva lavvocato, dice testualmente:
«Parlava sempre italiano, anche quando le donne tendevano a
rispondere in sardo, perché la lingua ricercata e lontana lo
rendeva più astratto». Da questo passo, dunque, risulta
abbastanza chiaro che Ludovico per certe sue esigenze psicologiche e
professionali, si imponeva di parlare con i suoi clienti in lingua
italiana, sfuggendo a quel regime di bilinguismo che invece dominava
non solo nella sua cittadina, ma anche nella sua famiglia.
Una volta cresciuto e allontanatosi dal suo "natio borgo selvaggio" e
poi diventato professore di diritto in differenti Università
della Penisola, come capitava per tutti i suoi concittadini
affermatisi come lui nel campo delle professioni e delle arti,
Salvatore Satta volentieri ritornava alluso del suo dialetto
nuorese con gli amici e coi compagni di scuola, che incontrava a
Nùoro nei suoi rari ritorni oppure negli incontri che aveva
con essi in varie località della Penisola.
La scopo esatto o il significato preciso di questa mia premessa
è quello di indicare e quindi di sottolineare che al fondo
della forma linguistica italiana adoperata dallo Scrittore per
comporre il suo capolavoro esiste un problema di impatto fra i due
codici linguistici di cui egli era in possesso, quello sardo e
quello italiano. Ovviamente nella sua opera, che è scritta in
italiano, il codice vincente è risultato quello italiano,
mentre il codice soccombente è risultato quello sardo.
Ciononostante, come capita sempre in casi come questo, il codice
linguistico sardo non è scomparso del tutto dal linguaggio
adoperato dallo Scrittore, bensì ha determinato alcune sue
reazioni ed ha lasciato alcune sue tracce, quelle per lappunto
che con questa mia comunicazione intendo prospettare e spiegare in
termini di analisi filologica e glottologica.
E' utile e necessario premettere e precisare che le reazioni del
codice linguistico sardo nei confronti del codice linguistico
italiano usato dallo Scrittore riguardano quasi esclusivamente il
campo del lessico, mentre non riguardano quasi per nulla il
campo della grammatica. E' solamente un certo numero di
lessemi che compaiono nelle pagine dellopera, ciò che
denuncia la presenza e la reazione, ora manifesta ed ora velata, del
codice linguistico sardo.
Si deve ancora precisare che delle reazioni od influenze che il
codice linguistico sardo ha esercitato sul linguaggio italiano da lui
adoperato, il Satta mostra di avere talvolta consapevolezza chiara e
precisa, tal altra meno chiara e meno precisa.
E' del tutto evidente e certo che il Satta ha avuto piena
consapevolezza di essere di fronte ad elementi del sottofondo
linguistico sardo tutte le volte che ha adoperato espressamente
lessemi della lingua sarda ed anche brevi espressioni, che egli ha
presentato graficamente in carattere corsivo oppure fra virgolette ed
ai quali inoltre ha quasi sempre fatto seguire la relativa traduzione
italiana. Per questi lessemi o frasi in lingua sarda usati e tradotti
dallo Scrittore non è il caso che mi soffermi, dato che egli
stesso ne ha dato una sufficiente spiegazione con la stessa
traduzione che per lappunto ne ha fornito. Una spiegazione
filologica e glottologica invece richiedono quei lessemi o frasi in
sardo che il Satta ha adoperato senza però farli seguire dalla
relativa traduzione. Eccone qui di seguito lelenco e la
rispettiva spiegazione glotto-filologica. A tal fine preciso che io
procedo a citare lopera del Satta nella sua prima edizione del
1977 pubblicata dalla CEDAM di Padova, ed inoltre faccio
spesso riferimento, in termini comparativi, sia allopera di
Luigi Farina, Bocabolariu sardu nugoresu-italianu,
Sassari, Edizioni Gallizzi, 1987, e allaltra di Max Leopold
Wagner, Dizionario Etimologico Sardo, Heidelberg, C. Winter,
voll. I-III, 1960, 1962, 1964 (sigla DES).
Cap. I pag. 12. su toccu pasau: lo Scrittore traduce «il rintocco lento», però la sua traduzione letterale è «il tocco riposato» (si veda anche nel cap. XVII pag. 227).
Cap. I pag. 12. sa' è Manca: il Satta traduce bene «quella di Manca», ma scrive la frase in maniera errata. La sua scrittura esatta è sa 'e Manca ed è per lappunto quella che compare nel cap. VII pag. 95.
Cap. II pagg. 27-28. domus de jana: esatta la traduzione «casa della fata», ma errata la forma del primo lessema, che a Nùoro e nel Logudoro suona esattamente dòmo. La variante domus adoperata dal Satta in primo luogo non è nuorese ma è campidanese, in secondo luogo non è al singolare, bensì è al plurale. Daltra parte è molto probabile che il Satta abbia derivato questo suo errore di lingua sarda dagli scritti degli archeologi, nei quali ormai è diventato la regola, la regola però insopportabile in esatti termini linguistici.
Nella riga successiva, il Satta mostra di accettare un punto di vista che io avevo espresso in un mio articolo pubblicato nel 1945 nel settimanale "LOrtobene" di Nùoro, secondo cui il toponimo nuorese Balubirde non significa affatto «Valverde», cioè "Valle Verde".
Pag. 29. boe porporì, boe montadì!: sono due frasi di incitamento per i buoi usate continuamente dai contadini nuoresi, che il Satta cita senza la traduzione; esse significano rispettivamente «bue rossastro!» (letteralmente «porporino, del colore della porpora») e «bue mantellato!» (cioè listato da una striscia bianca o grigia lungo la schiena) (Farina 219, 230, 266; mancano nel DES).
Cap. II pag. 37, 38 e cap. IX pag. 129. barandilla: il Satta traduce «verandina», ma sbaglia, perché il suo esatto significato è «ringhiera», in quanto deriva dallo spagn. barandilla «ringhiera» (Farina e DES I 176).
Qualche riga prima della stessa pag. 37 lo Scrittore invece ha tradotto bene il lessema istancu «tabacchino», che deriva dallo spagn. estanco (DES I 685). Curioso poi è il fatto che nel cap. XIII pag. 170 il Satta adoperi il lessema spagnolo estanco tale e quale, sia pure facendolo seguire dalla relativa traduzione di «tabacchino».
Cap. V pag. 74. jaca «cancello fatto di travi di quercia messe per lungo e per traverso». E' curioso il fatto che, mentre il maestro della linguistica sarda M. L. Wagner (DES I 706) ha, a mio avviso, errato a riportare questo lessema ad un vocabolo latino, il Satta invece ha intravisto che si tratta di un "nome preistorico", cioè - dico io - di un "lessema paleosardo o nuragico", semplicemente affine al lat. iacca «graticcio» (che molto probabilmemte è derivato dalletrusco).
Alla prima uscita del romanzo sattiano a noi Nuoresi non è
sfuggito il fatto che quasi tutti i nomi e cognomi dei personaggi
citati dal Satta risultavano mutati e trasformati, con la
conservazione della sola consonante iniziale oppure di una certa
assonanza fra lantroponimo originario e quello sostituito, e
che ciò era stato fatto col preciso scopo di non muovere il
risentimento dei rispettivi discendenti, che a Nùoro sono
ancora numerosi. In realtà questo mutamento dei nomi e cognomi
dei personaggi citati ha, sì, conseguito il risultato di
evitare il pericolo di eventuali querele per diffamazione o per
calunnia da parte degli interessati, mentre non ha impedito per nulla
il riconoscimento esatto e puntuale che ne hanno fatto gli stessi
interessati e in generale molti altri Nuoresi della vecchia
generazione.
Si deve però precisare che questa operazione del mutamento dei
nomi e dei cognomi non è stata effettuata né voluta
dallo scrittore nuorese, ma è stata concepita ed attuata dai
suoi familiari e precisamente da quelli che hanno curato la
pubblicazione postuma del romanzo. La circostanza mi è stata
comunicata per lappunto da uno di essi, di cui sono quasi
coetaneo ed buon amico da vecchia data. Ebbene questa operazione del
mutamento dei nomi e dei cognomi effettuata dai curatori della
pubblicazione del romanzo ha determinato qualche pasticcio
linguistico:
Cap. VIII pag. 107. Il soprannome di un anziano maestro Manca, parecchie volte citato dallo Scrittore, maestro che è stato a lungo ricordato dai Nuoresi, anche da quelli che non lo avevano mai conosciuto, era Prediskèdda, che significa esattamente «Pietruzza». Ebbene i responsabili della trasformazione dei cognomi hanno riportato questa esatta traduzione di «Pietruzza», ma purtroppo hanno mutato il soprannome da Prediskèdda in quello di Pedduzza, non badando che questultimo significa non «Pietruzza», bensì «Pellicina», cioè "piccola pelle" (si veda anche nel cap. XVIII pag. 245).
Gli stessi responsabili delle trasformazioni linguistiche hanno proceduto a mutare anche il nome di alcune vie e zone della campagna nuorese, nonché di alcuni rioni: ad es. via Angioi in via Asproni, la regione su Tuvu in quella di Locoi, il rione Lollobéddu in quello di Lorenéddu. Ed anche da questa operazione è venuto fuori qualche pasticcio linguistico.
Cap. IX pag. 117. Dice il Satta che le due campane della cattedrale di Santa Maria della Neve «con quella scritta latina che neppure i preti capivano» (Deiparae Virgini a nive sacrum; cap. II pag. 38), avevano rispettivamente il nome di Lionzèdda e di Lollobèdda. La campana Lionzèdda derivava la sua denominazione dal fatto che con essa veniva annunziata l'amministrazione dellOlio Santo ai morenti (in nuorese = oliónzu) (1), la campana Lollobèdda derivava la sua denominazione dal fatto di essere sistemata in direzione del sottostante rione di Lollobéddu. Ebbene la trasformazione del nome del rione di Lollobéddu in quello di Lorenéddu (cap. VIII pag. 111), oltre che non trovare alcuna spiegazione e motivazione, ha finito con lo spiazzare la campana Lollobèdda, il cui nome pertanto ora risulta del tutto privo di significato e di motivazione.
Pag. 135. Lo Scrittore usa il lessema sardo canistedda dimenticandosi di dire che esso significa «canestra, canestra dal bordo basso». Nel cap. X pag. 145 e nel cap. XII pag. 157 ha tralasciato di indicare il significato del rione Sa Bèna, che è «La Vena o La Sorgente», così chiamata da una delle fonti che davano l'acqua al paese. Nel cap. XIII pagg. 183, 191 usa il lessema nuorese «zippòne» fra virgolette, ma trascura di dire che si tratta del «corpetto del costume maschile e di quello femminile», il quale deriva dallantico ital. gippone «giubbone» (DES I 609). Nel cap. XV pag. 211 egli si è dimenticato di presentare lesatta traduzione di alcuni lessemi nuoresi: casadinas = «formaggelle» da casu «formaggio»; sebadas che si può tradurre «caciottelle», da sébu, séu «sego», così chiamate perché fatte di formaggio fresco coperto da due sfoglie di pasta lavorata con lo strutto (DES II 396; Farina 291); culurjones «ravioli», che probabilmente è un relitto paleosardo o nuragico; maccarrones cravàos «gnocchetti schiacciati con lunghia», ma letteralmente «maccheroni inchiodati».
Nel cap. XI pag. 153 il Satta dice bene che il soprannome Fileddu significa «spago» (letteralmente "piccolo filo"), ma poco più avanti si dimentica di far osservare che laltro soprannome Casizólu significa «caciocavallo» (letteralmente è il diminuitivo di casu e così pure nel cap. XIII pag. 176 ha trascurato di indicare il significato di altri cinque soprannomi: Buziúntu = (Farina 74), Torronéddu = «torroncino» oppure «tornietto» (Farina 323/2), Seddòne = accrescitivo di sèdda «sella», Peditórtu = «che ha il piede storto», Palimòdde = «poltrone, scansafatiche» (letteralmente "che ha la spalla molle, delicata").
Cap. XVII pag. 227. Il Satta cita sas sùrbiles e traduce «le streghe», mentre avrebbe tradotto meglio .
A questo punto può riuscire interessante conoscere la forma originaria nuorese di due modi di dire che il Satta adopera parecchie volte nel suo romanzo. Il primo è quello crudele che egli mette spesso in bocca del padre quando questi vuole far tacere sua moglie: «Zitta tu perché sei nel mondo soltanto perché c' è posto!», che in nuorese suona così: Muda tue ca ses in su mundu solu ca b' at loccu! Ed è una frase con la quale si mira a tacitare una persona giudicandola ed apostrofandola come del tutto inutile e buona nulla.
Laltro modo di dire è usato nei confronti di un certo Pietro Catte (cap. XVII pag. 223, 226, 230), il quale aveva tentato di fare fortuna andando a Milano con tutta la somma ereditata da una zia e che invece si era subito fatto derubare da due truffatori ed inoltre nei confronti di una certa ragazza Peppeddèdda, che aveva finito i suoi giorni in un tubercolosario di Genova (cap. XVIII pag. 255): «Cercare pane migliore di quello di grano», cioè kircare pane mezus de cuddu de trídicu. La quale è una frase che si adopera con riferimento ad un individuo che si lancia in una avventura illudendosi di fare fortuna e rinunziando invece a quella che già possiede.
Procedo adesso a mostrare alcuni fenomeni di reazione del codice
linguistico sardo nei confronti del codice italiano privilegiato e
adoperato dallo Scrittore, fenomeni di cui non sembra che egli abbia
sempre avuto esatta consapevolezza.
In primo luogo è da osservare che il Satta - proprio come la
sua concittadina Grazia Deledda - fa largo uso del lessema
tanca-tanche (ad es. cap. II pagg. 29, 37; cap. IX pag. 134),
il quale non è altro che la traduzione del sardo tanca,
tancas, che indica un «podere chiuso da siepi o da muri a
secco» e deriva dal catal. tancar «chiudere»
(DES II 463). Ebbene, in effetti questo lessema fa parte
solamente dell'italiano regionale della Sardegna e appunto come tale
viene citato dai più ricchi dizionari della lingua
italiana.
Nel cap. I pag. 14 lo Scrittore usa lespressione «lòriche» per il giogo, la quale però risulta totalmente incomprensibile ai Peninsulari ed anche a molti Sardi. In effetti «lòrica» non esiste nel lessico della lingua italiana, esso non è altro che la traduzione del nuor. lórica, che indica lanello di ferro che veniva affisso ai muri delle case per legarvi gli animali domestici e che molto probabilmente è un relitto paleosardo, semplicemente affine al lat. lorum «correggia, striscia e anello di cuoio» (inesatto il DES II 37).
Nel cap. II pagg. 29 e 30 lo Scrittore usa il vocabolo cortita - che significa «cortiletto» e che avrebbe scritto meglio cortitta - trascurando di osservare che neppure questo lessema esiste nel lessico italiano.
Nel cap. II pag. 35 ricorre lespressione «amico di posata», che traduce quella sarda amicu de posada = «amico di alloggio, di albergo», cioè "di ospitalità" (vedi pag. 33) (= catal.-spagn. posada; DES II 300), ma che in italiano è fortemente ambigua, se non addirittura incomprensibile.
Sempre nel cap. II pag. 36 lAutore usa lespressione la roba scritta in corsivo, trascurando di osservare che in nuorese sa ròbba non significa «il patrimonio» in genere, bensì soltanto «il gregge» (Farina; DES II 360).
Nei cap. VII pag. 95, cap. IX pag. 128, 131 e cap. XIV pag. 196 usa il vocabolo interro non segnandolo col corsivo né dandone il significato: in effetti si tratta del lessema nuor. intérru «seppellimento, funerale», che deriva dal catal. enterro o dallo spagn. entierro (DES II 477). In italiano il vocabolo non esiste, dato che risulta usato una sola volta da uno scrittore friulano del Settecento, Antonio Zucchelli, Relazione del viaggio e missione di Congo, Venezia 1712, pag. 254.
Nel cap. IX pag. 132 il Satta usa il lessema dominari (al plur.) che in effetti non esiste in italiano; si tratta pertanto della traduzione letterale del lessema nuor. dominários che significa «grandi case padronali, caseggiati» (Farina 117; manca nel DES). Questo stesso lessema nuorese il Satta nel cap. XIII pag. 187 lo traduce con lital. dominio.
Rispettivamente nel cap. X pag. 144 e nel cap. XV pag. 201 lo Scrittore adopera le espressioni «Il fatto è che ....» e «Fatto si è che ....», le quali non sono altro che reazioni supercorrette dellespressione nuor. Fatt' istat ki .... = «Sta di fatto che ....».
Nella medesima pag. 144 del cap. X, riferendosi a quel personaggio che aveva il soprannome di Fileddu, lo definisce eremitano e nel cap. XIII pag. 184 dice che in origine i Corrales erano degli eremitani, con una attribuzione che in italiano risulta del tutto incomprensibile. Gli è che il Satta ha proceduto a tradure letteralmente il nuor. remittanu, che deriva, sì, dallantico ital. eremitano «monaco dellordine dei frati eremitani», ma che a Nùoro ha finito con lavere esclusivamente il significato di «accattone, pezzente, miserabile» (manca nel DES) (2).
Nel cap. XI pagg. 151-152 è adoperato, chiuso da virgolette, il vocabolo «insignoriccati», che è la traduzione letterale del nuor. insignoriccáos = «coloro che sono diventati signori».
Nei cap. XII pag. 169, cap. XIII pagg. 183, 189 il Satta adopera fra virgolette lespressione «la parlata» e c' è da precisare che negli anni Venti a Nùoro si chiamava così «il discorso» politico fatto in piazza. Luso di tale lessema però si riscontra anche nella lingua del mondo politico italiano di quei decenni. E' poi curiosa la circostanza che nel cap. XIII pag. 190 il Satta abbia anche creato il neologismo «controparlata», del quale però c' è da dubitare parecchio che finisca con lentrare nel lessico della lingua italiana.
Nel cap. XIII pag. 172 lo Scrittore adopera lespressione «strada» di pietra presso la porta, con un significato del primo lessema però che non trova alcun riscontro nelluso della lingua italiana e che pertanto riesce incomprensibile ai lettori peninsulari ed anche a molti sardi. Gli è che il nuor. istrada è, sì, corradicale dellital. strada in quando entrambi derivano dal lat. strata «lastricata», ma propriamente indicava un lastrone di granito posto accanto alla porta di ogni casa, che serviva sia da sedile sia da appoggio per montare a cavallo. Ed è proprio ciò che si evince dallespressione adoperata dal Satta (3).
Sempre nel cap. XIII pagg. 173, 191 usa il lessema immondezza riferito al maestro don Ricciotti Bellisai: è la traduzione del nuor. arga 'e muntonarju = «spazzatura di mondezzaio», che è una espressione molto più efficace del vocabolo ital. immondezza, perché è più concreta e per la sua intrinseca ripetizione risulta meglio evidenziata.
Sempre nel cap. XIII pag. 190 il Satta usa la frase «gli avrebbe letto la vita», che risulta quasi incomprensibile in italiano; si tratta della traduzione letterale della frase nuorese lègher sa vida a unu che significa «rinfacciare le malefatte ad uno».
Nel cap. XIV pag. 198 c' è la frase: «Finalmente arrivò prete Porcu col diaconetto». Anche qui lo Scrittore ha tradotto male: il nuor. jacanéddu deriva, sì, dal lat. eccl. diaconus, ma significa propriamente «chierichetto o piccolo sagrestano» e non «piccolo diacono».
Nel cap. XVIII pag. 255 ricorre fra virgolette il vocabolo «cantaro», che è la traduzione del sardo cántaru; sta però di fatto che in italiano cantaro significa «vaso», mentre in sardo cántaru significa «tubo di fontana, fontana, sorgente» (DES I 287).
Nel cap. XIX pag. 263 ricorre la frase «Non si udì lappello di un cane», nella quale il lessema appello traduce quello sardo appéddu che significa «abbaio, latrato»; senonché il corrispondente italiano non ha affatto questo significato.
Per finire questaltro punto mi preme precisare bene che io escludo decisamente che questi errori ed imperfezioni lessicali dello Scrittore nuorese siano stati leffetto di una sua scarsa padronanza del lessico italiano; io sono fermamente convinto che questi errori e imperfezioni egli li avrebbe eliminati tutti o quasi tutti, se avesse avuto modo di procedere ad un ultima revisione del suo romanzo. Cosa che - come si sa per certo - egli non ebbe modo di effettuare, come dimostra anche la circostanza che il suo lavoro è stato pubblicato postumo. Solamente per questa precisa circostanza si spiega, ad esempio, lerrata attribuzione che nel cap. I pagg. 19-20 egli fa del verbo plurale aggiustavano ad un soggetto singolare un avvocato di Nuoro e nel cap. XI pag. 150 lerrata attribuzione del pronome maschile gli al sostantivo femminile vena.
Del resto la mancata revisione ultima del romanzo da parte dello Scrittore viene denunziata non solamente dalle imperfezioni e dagli errori lessicali che ho elencato sopra, ma anche e, direi, soprattutto dallo stile espressivo che si riscontra qua e là, nelle pagine dellopera: che talvolta è uno stile impreciso ed oscuro, perché troppo scheletrico o stringato e per ciò stesso non sempre di facile comprensione od interpretazione. E tanto più notevole risulta questo sia pure sporadico difetto stilistico, in quanto la sintassi del Satta in effetti è sempre molto lineare e perfino assai semplice nella sua struttura essenziale.
Finisco con una considerazione globale relativa alluso della lingua italiana da parte di Salvatore Satta, considerazione che però in effetti riguarda tale e quale anche tutti noi Sardi in generale.
Almeno con riferimento alle generazioni di noi Sardi per i quali
è valso il regime di bilinguismo e di diglossia, insomma
almeno per quei Sardi che siamo arrivati al codice linguistico
italiano partendo dal nativo codice linguistico sardo ritengo che
valga la seguente considerazione generale. Limpatto che si
determinava in Sardegna fra la lingua italiana e quella sarda,
cioè fra due lingue, che sono, sì, sorelle rispetto
alla comune madrelingua latina, ma sono anche abbastanza differenti
fra loro, provocava una forte reazione a livello dello psichismo
inconscio dei parlanti; e si trattava di un fenomeno di quello
psichismo inconscio, che in effetti è ciò che regola
tanta parte dei fenomeni che si registrano in tutte le lingue parlate
dagli uomini. La coscienza linguistica dei sardoparlanti sentiva, in
maniera molto più inconsapevole che consapevole, che per
passare dal codice linguistico sardo a quello italiano era necessario
fare un salto molto ampio e quindi era necessario porre in atto uno
sforzo veramente notevole. Tutto ciò implicava un impegno
linguistico abbastanza accentuato da parte dei sardoparlanti ed era
un impegno di molto superiore a quello che dovevano sostenere le
altre popolazioni italiane rispetto alla lingua toscana ormai
diventata lingua nazionale, impegno superiore nella misura in cui la
lingua sarda risultava differente dalla lingua italiana più di
quanto i vari dialetti italiani lo fossero da questa. Senonché
questo superiore impegno linguistico cui eravamo obbligati noi Sardi,
alla lunga finiva col conseguire un risultato di notevole valore: una
padronanza della lingua italiana imparata ex novo dai Sardi,
che nella sostanza si poteva valutare come mediamente discreta ed
anche buona, ovviamente considerati e rispettati i vari livelli
culturali dei singoli parlanti.
Daltra parte avveniva che questa discreta e buona acquisizione
che noi Sardi conseguivamo della lingua italiana, venisse raggiunta
molto più rispetto alla sua struttura grammaticale e molto
meno rispetto al suo patrimonio lessicale. Voglio dire che, mentre
noi Sardi delle vecchie generazioni finivamo, anche per effetto della
scolarizzazzione ormai dominante, con lavere una discreta
padronanza della grammatica italiana, soprattutto nelle sue parti
della morfologia e della sintassi, il patrimonio lessicale italiano
che riuscivamo ad acquisire risultava sempre povero e perfino molto
povero. Ciò dipende dal fatto che la struttura grammaticale di
una lingua imparata ex novo si può acquisire più
o meno facilmente, a distanza, dai libri, dai maestri e dai
professori, mentre il corrispondente patrimonio lessicale può
essere acquisito solamente con un contatto continuo e profondo,
possibilmente avuto in loco, col mondo umano e culturale che
sta alla base di quella lingua.
La situazione linguistica che si determina ancora nel presente a
carico di noi Sardi rispetto al patrimonio lessicale italiano,
paragonata a quella dei Toscani, mi sembra che possa essere spiegata
in questi precisi termini. Quando parlano la loro lingua toscana e
italiana i Toscani adoperano ed hanno il pieno diritto di adoperare
continuamente e ad ampie mani lessemi che traggono dal loro
sottofondo dialettale, lessemi che sono quelli che rendono quasi
sempre preciso, efficace e ricco il loro parlare e il loro scrivere.
Il parlare e lo scrivere di noi Sardi invece è sempre molto
povero ed anche impreciso rispetto alla quantità e alla
qualità dei lessemi adoperati, per il fatto che noi non ci
sentiamo di attingere lessemi dal nostro sottofondo linguistico, anzi
evitiamo con grande cura di farlo, data la coscienza linguistica -
questa volta chiara e precisa - che noi abbiamo della essenziale
estraneità della nostra lingua sarda rispetto a quella
italiana.
A ciò si deve aggiungere un altro fatto che è perfino
curioso: quella stessa «coscienza linguistica» di noi
sardoparlanti che ci spinge a sostenere un più forte impegno
nellapprendere la lingua italiana, ci gioca un brutto tiro col
fenomeno della «supercorrezione», che fra noi è di
continuo operante nelluso del patrimonio lessicale italiano.
Per una "eccessiva paura di sbagliare" noi Sardi evitiamo con cura di
usare molti lessemi italiani, che vediamo corrispondere in tutto o in
parte ad altrettanti lessemi sardi, mentre ci buttiamo alluso
dei loro rispettivi sinonimi, più o meno esatti. Ad es.,
è difficile che un Sardo delle generazioni adulta e vecchia
adoperi i lessemi italiani arena, brocca, chicchera,
fontana, marra, padella, picco, pigliare, rammentare, tappo, tonto,
tornare, torto, ecc. ecc., per la ragione che egli
è inconsapevolmente spinto a ritenere che si tratti di
altrettanti sardismi (mentre in realtà non lo sono affatto),
corrispondenti ai relativi lessemi sardi arèna,
bròcca, tzíkkera, funtana, marra, padèdda,
piccu, piccare, ammentare, tappu, tóntu, torrare,
tórtu, ecc. ecc, ed invece adopera solamente
i rispettivi sinonimi: sabbia, anfora, tazzina, fonte, zappa,
pentola, piccone, prendere, ricordare, turacciolo, stupido,
restituire, storto, ecc. ecc. E la conseguenza di questa
forte avversione che noi Sardi sentiamo verso la prima serie di
lessemi italiani, a causa della nostra "eccessiva paura di
sbagliare", è che il patrimonio lessicale italiano di cui
risultiamo in possesso e di cui facciamo uso effettivo nel nostro
parlare, risulta veramente povero.
Avevo segnalato questo strano ma reale fenomeno linguistico con
riferimento al patrimonio lessicale italiano adoperato da Grazia
Deledda, in una mia relazione tenuta nel «Convegno Nazionale di
Studi Deleddiani», Nuoro, settembre 1972
(4), ed oggi lo segnalo tale e quale per
il suo concittadino Salvatore Satta. Anche in Salvatore Satta del
romanzo "Il Giorno del Giudizio" la povertà del lessico
italiano adoperato è veramente notevole. E risulta molto
strano che la cultura generale del Satta, di certo enormemente
superiore a quella della Deledda, non labbia su questo
particolare punto favorito in una misura ampia e concreta.
Ed ancora strana è la circostanza che neppure la cultura
specifica del Satta, quella giuridica, che per se stessa è
così ricca di elementi e di distinzioni lessicali, in nessuna
pagina del suo romanzo dimostri di allargare e di arricchire il suo
patrimonio lessicale italiano. Su questo preciso punto ed argomento
è perfino facile che si verifichi questa eventualità:
se un lettore non lo sapesse per altra via, non riuscirebbe ad
indovinare, dal lessico che il Satta adopera nel suo romanzo, che
egli era un giurista ed un giurista di chiara fama scientifica.
Concludo questultima parte del mio intervento con quella che
potrebbe sembrare ed essere giudicata la "ritrattazione di un critico
pentito"; dico "potrebbe sembrare" nella apparenza, mentre sono
convinto che non lo sia nella sostanza.
Un filologo che sottopone ad analisi una qualsiasi opera letteraria
ha il dovere di individuare e di segnalare i valori ed anche i
disvalori di carattere linguistico che sono presenti in essa; proprio
come un critico delle arti figurative ha il dovere, in termini di
filologica artistica, ad esempio, di segnalare i difetti della
composizione chimica dei colori che Leonardo ha adoperato per
dipingere la sua «Ultima Cena». E tutto questo è
necessario ma non è sufficiente, perché il critico
darte sa bene che questi difetti tecnici, in cui è
caduto Leonardo nelleffettuare quellaffresco, non tolgono
nulla allaltissima valenza artistica di quel capolavoro. In
maniera del tutto analoga, lavere io anche indicato e
spiegato - in termini esclusivamente filologici e linguistici - i
difetti e le imperfezioni della forma linguistica del romanzo "Il
Giorno del Giudizio" di Salvatore Satta non toglie né mira a
togliere nulla allalta valenza letteraria di questo lavoro.
Anzi proprio questo pignoleggiare del filologo e del linguista ancora
una volta ci rende consapevoli, più consapevoli, che in ogni
opera darte letteraria, tra la «forma» e il
«contenuto», tra la veste linguistica e il messaggio
trasmesso è questultimo quello che ha il maggiore
valore, è questultimo quello che conta veramente. Anche
nel caso del romanzo "Il Giorno del Giudizio" di Salvatore Satta
siamo in grado di constatare e di accertare che in unopera
letteraria ciò che veramente e soprattutto vale è il
che cosa dice lAutore e invece molto meno vale il
come lo dice.
Quali che siano pertanto i difetti e le imperfezioni che oggi ho
segnalato nella veste linguistica del romanzo sattiano, nessuno
può negare né io intendo negare il suo alto ed
altissimo valore letterario, in virtù e per merito di quel
messaggio di larga e profonda umanità che esso comunica
ai lettori e agli uomini.
Massimo Pittau
1. Sono debitore di questa spiegazione ad un suggerimento che mi ha dato il mio amico dott. Pietro Maria Marcello.
2. Ha errato il Farina a pag. 120 a presentare anche la forma eremitanu. Questa esisteva realmente, ma significava propriamente e solamente «custode di un santuario di campagna», secondo un uso che è documentato parecchie volte dalla Deledda.
3. Il lessema aveva il significato di «strada, via» solamente con riferimento alla attuale via Roma di Nuoro, la quale veniva chiamata SIstrada o perché era percorsa in tutta la sua lunghezza da una doppia fila di lastroni di granito per il passaggio delle ruote dei carri oppure in virtù di un calco lessicale italiano; cfr. M. Pittau, Lingua e civiltà di Sardegna, Cagliari, 1970, pag. 145.
4. I relativi Atti sono stati pubblicati a Cagliari nel 1974.
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