QUESTIONI DI METODO


Riguardo alle proposte di etimologia di toponimi che io presento nel mio libro Toponimi Italiani di origine etrusca, (Sassari 2006, Magnum Edizioni) ed anche a quelle che ho presentato in miei scritti precedenti, ritengo opportuno iniziare con una breve, ma - almeno così mi sembra - importante premessa di carattere metodologico.
Nella lingua italiana - e credo anche in altre lingue di cultura - il verbo "dimostrare" significa «presentare argomentazioni a favore di una tesi, che costringono l'ascoltatore (o il lettore) a dare il suo assenso».
Il "dimostrare", il “dimostrare costrittivo o cogente”, più caratteristico e più significativo è quello che effettua il matematico: l'ascoltatore o il lettore, se è sano di mente e se è in buona fede, è costretto a dare il suo assenso ad una tesi prospettata da un matematico, se le ragioni che la sostengono sono realmente fondate e inoltre regolarmente connesse fra loro a catena. Orbene, è del tutto certo che il "dimostrare alla maniera matematica" (cioè more geometrico), il “dimostrare cogente” non esiste per nulla nel modo di operare del linguista, sia che egli lavori secondo la prospettiva sincronica, sia che lavori secondo la prospettiva diacronica o storica.
Esiste il "dimostrare cogente" anche nel campo di quelle scienze della natura, che sono la fisica e la chimica: in queste è possibile il "dimostrare cogente" in virtù dell'«esperimento», quello che "ripete", in condizioni artefatte e ideali, ma rigorosamente significative, un certo fenomeno fisico o chimico tutte le volte che lo scienziato vuole ed inoltre lo ripete in condizioni ideali di semplicità per gli elementi studiati e di univocità per i risultati che egli vuole conoscere. Senonché neppure questo "dimostrare cogente" della fisica e della chimica è possibile nel campo della linguistica, soprattutto di quella buttata nella direzione diacronica o storica. Il linguista storico o glottologo infatti non è assolutamente in grado di far "ripetere" o di richiamare un certo fenomeno linguistico che risulta documentato per il passato, né può pertanto sottoporlo ad "esperimento". Il passato è passato e non può essere richiamato o ripetuto in alcun modo e da nessuno.
Se tutto questo è vero, noi linguisti ci dobbiamo convincere che nel campo della linguistica storica o glottologia non esiste affatto il "dimostrare cogente", non esiste cioè la "dimostrazione" vera e propria.
Naturalmente nulla di allarmante e nulla di mortificante c'è nella constatazione che nel campo della linguistica storica il vero e proprio "dimostrare" non esiste; perché questa medesima situazione si determina anche nella storia (da intendersi qui come "storiografia") in generale ed in tutte le discipline storiche in particolare.
Ciò premesso, se il linguista storico non presenta mai "dimostrazioni cogenti", che cosa fa quando prospetta etimologie, cioè "storie di vocaboli", che pure egli ritiene fornite dei caratteri della scientificità? Io ritengo che egli prospetti tesi che non hanno mai il carattere e il valore della "certezza", mentre hanno solamente il carattere e il valore della "probabilità" o della "verosimiglianza", della maggiore o minore probabilità o verosimiglianza. In realtà dunque il glottologo non "dimostra" mai, mentre si limita a prospettare tesi che sono più o meno probabili o più o meno verosimili. (E da questo mio fermo convincimento deriva il fatto che in tutti i miei scritti di linguistica storica io faccio largo uso dell’avverbio “probabilmente”).
Tutto questo implica in maniera necessaria che l'operare del glottologo è caratterizzato da una sostanziale nota di "incertezza" o di "aleatorietà" generale, nella quale il fare obiezioni e il sollevare dei dubbi è una operazione molto e perfino troppo facile; e spesso le obiezioni possono essere anche molto numerose.
Si deve poi considerare con attenzione che il sostanziale carattere di incertezza o di aleatorietà che investe l’operare del glottologo è ulteriormente aggravato quando egli opera nel campo della onomastica, nei suoi due rami della antroponomastica e e della toponomastica. L’onomastica è indubbiamente la sezione della glottologia di gran lunga più difficile e quindi anche la più aleatoria ed incerta. Ciò è la diretta conseguenza del fatto che, mentre comunemente il glottologo lavora su due coordinate, quella fonetica e quella semantica, cioè sui suoni fonici che costituiscono il “significante” di un vocabolo e sull’idea o sull’immagine che costituisce il suo “significato”, nell’onomastica è spesso costretto a lavorare sulla sola coordinata fonetica, cioè soltanto sui suoni fonici. Molti antroponimi e toponimi infatti col passare del tempo hanno perduto il loro “significato” originario, hanno cioè cessato di essere “trasparenti” per il loro significato rispetto alla coscienza dei parlanti e sono pertanto diventati “opachi”. Ricorrendo ad un'immagine, si può affermare che, mentre per l'etimologia dei comuni appellativi la glottologia cammina con due gambe, quella fonetica e quella semantica, cioè con due serie di fatti e quindi di prove, per l'etimologia degli antroponimi e dei toponimi sovente essa cammina con una sola gamba, quella fonetica soltanto. Ed è appunto questo il motivo essenziale che rende spesso assai difficile e soprattutto molto incerta e aleatoria la ricerca etimologica del linguista intorno agli antroponimi ed ai toponimi.
Ovviamente non saranno queste considerazioni metodologiche - che sono certamente pessimistiche - a indurre i glottologi a non tentare più etimologie degli antroponimi e dei toponimi e neppure io personalmente ci rinunzio oggi né ci rinunzierò nel futuro. Tutti continueremo a prospettare etimologie di antroponimi e di toponimi, pur sapendo che a loro favore vale solamente la nota della maggiore o minore “probabibilità” o “verosimiglianza”.
A queste nostre etimologie più o meno probabili o verosimili, a mio giudizio non si debbono tanto contrapporre difficoltà od obiezioni, quanto si debbono contrapporre altre etimologie, le quali abbiano la dote di essere più verosimili e più probabili di quelle rifiutate. Se una certa mia etimologia sembra poco verosimile ad un mio collega, ai fini stessi del progresso della nostra disciplina, prospetti lui una etimologia più verosimile della mia e sarò io il primo a rinunziare alla mia e ad accettare la sua.
Si deve infatti considerare che tutte le scienze, compresa la nostra, progrediscono non con le "obiezioni", bensì con le "proposte", con le proposte anche aleatorie. Il progresso delle scienze - di tutte le scienze – è infatti possibile solamente a condizione che "si rischi".
Circa tre anni fa a Firenze, in una affollata conferenza pubblica, a cui ero presente anche io, un mio collega linguista, che aveva avuto sotto studio per alcuni anni la ormai famosa Tabula Cortonensis, senza però tentare di tradurla, riferendosi certamente a me - che avevo già pubblicato una proposta di traduzione completa di quella iscrizione – ma non citandomi, ebbe modo di dichiarare: «Chi tenta di tradurre la Tabula Cortonensis lo fa a suo rischio e pericolo!». Quel mio collega aveva ed ha perfetta ragione! Chi traduce lo fa sempre a suo rischio e pericolo; anche quando si metta a tradurre la più semplice delle iscrizioni etrusche o perfino la più semplice frase latina oppure greca. Rischia di sbagliare anche il linguista od il filologo che si metta a tradurre la più semplice delle favole di Fedro oppure di Esopo. È sufficiente che intervenga per lui un momento di disattenzione ed ecco che egli corre il rischio ed il pericolo di incappare in un errore anche grave di interpretazione e di traduzione.
Eppure si ha l'obbligo di rischiare e non soltanto in linguistica storica, ma anche in una qualsiasi altra scienza. Il progresso in tutte le scienze, di qualsiasi carattere e tipo - "esatte", naturalistiche, filologiche, storiche, ecc. - è proprio il risultato del rischio che ha corso uno scienziato, anzi dei rischi che hanno corso in generale tutti gli scienziati. I loro errori, effetto del loro rischiare, in realtà sono dappertutto il prezzo che si paga al progresso delle scienze, di una qualsiasi delle scienze. Questo principio è entrato anche nella saggezza popolare, la quale ricorda che «Chi non risica non rosica».
Gli scienziati che non rischiano mai nel loro sentenziare non sono propriamente "scienziati", ma sono semplicemente "ripetitori" delle scoperte altrui. Io ho già avuto modo di scrivere che anche in linguistica «è molto meglio una ipotesi azzardata, che nessuna ipotesi; infatti, da una ipotesi azzardata - che alla fine potrebbe anche risultare errata - prospettata da un linguista, potrà in seguito scaturire una ipotesi migliore e addirittura quella vincente, prospettata da un linguista successivo». Questo - ho detto - è l'esatto significato e il profondo valore della nota tesi di G. W. F. Hegel della "positività dell'errore" (RIOn, VI, 1, 144).

Massimo Pittau