TOPONIMIA ED ETIMOLOGIA
La «Rivista Italiana di Onomastica» (RIOn), nel suo fasciolo V (1999), 1, aveva pubblicato la recensione che Heinz Jürgen Wolf aveva fatto del mio libro I nomi di paesi città regioni monti fiumi della Sardegna - significato e origine - (Cagliari 1995), nella quale con gli elogi figuravano anche alcune critiche alle mie tesi. Siccome quelle critiche mi erano sembrate frutto di una lettura affrettata e poco attenta del mio lavoro da parte dell'egregio collega, nel fascicolo successivo della medesima rivista VI (2000), 1, avevo risposto quasi punto per punto alle obiezioni e critiche del Wolf. Ma nel fascicolo VII (2001) 1, è ancora intervenuto il Wolf per giustificare le sue obiezioni e per insistere su alcune critiche. Siccome i tre interventi sull'argomento, due del Wolf ed uno mio, erano stati piuttosto lunghi, la Direzione della rivista ha precisato di ritenere chiuso «almeno per quanto concerne le pagine di questa rivista - il vivace scambio di opinioni fra M. Pittau e H. J. Wolf nella speranza che possa essere risultato utile agli studiosi di sardistica e ai lettori tutti». Non esprimo alcun rammarico rispetto a questa decisione della Rivista, dato che effettivamente i nostri tre interventi erano stati molto lunghi, però non rinunzio a mandare avanti, in altra sede, lo scambio di opinioni col collega Wolf, dato che in esso sono comparsi non soltanto molti fatti e concetti sulla toponomia sarda, ma anche e soprattutto sono state toccate alcune importanti questioni di metodo. La mia ripresa del discorso dunque non è affatto determinata da un senso di ripicca rispetto al collega Wolf, per il quale anzi dichiaro la mia alta stima e professo la mia cordiale amicizia. Premetto che il Wolf è stato veramente felice nel presentare le differenze di metodo che esistono tra me e lui nell'affrontare questioni di toponomia sarda. In proposito i miei punti di vista - da lui non condivisi - sono questi (traduco dal francese perché a me preme essere letto soprattutto dai lettori sardi): 1) «I vocaboli di sostrato - in questo caso i toponimi paleosardi - possono seguire una evoluzione a parte; 2) I toponimi in generale s'allontanano spesso dalla via (fonetica) tracciata dagli appellativi; 3) Le differenze diatopiche servono a giustificare il fonetismo di un nome in un dialetto A (dove esso è sconosciuto) dalla sua esistenza in un dialetto B (dove esso è generale); 4) La differenze diacroniche servono a giustificare un fonetismo d'un nome medioevale per mezzo della evoluzione osservabile nei dialetti moderni, mentre esso è sconosciuto nel Medioevo (rispettivamente nel contesto del documento antico)». Circa il 1° punto io avevo chiamato in causa il punto di vista del maestro della linguistica sarda, Max Leopold Wagner, per il quale il Wolf mi ha rimproverato di non aver citato il relativo sito bibliografico. Io non potevo citarlo, per la ragione che l'illustre maestro mi aveva comunicato il suo punto di vista in una lettera personale del 22 marzo 1959. Avendogli io chiesto perché mai Ollollái (questa è la esatta pronunzia), non si fosse trasformato in *Oddoddái, egli mi rispose: «Che in certi toponimi l' -LL- si conservi (Ollolái, ecc.), non fa specie, giacché questi sono certamente toponimi di sostrato antico, e non è detto che debbano rispondere alle esigenze della fonetica latino-sarda». Siccome non sono sicuro di poter pubblicare in questo mio presente articolo la fotocopia di quella lettera del Wagner, mi impegno di mandarla direttamente al collega Wolf. Ebbene, questo punto di vista così chiaro - e vorrei aggiungere, così ovvio - del grande Wagner viene definito dal Wolf «ciò che non si può che qualificare che un assurdo» (ce qu'on ne peut qualifier que d'absurde) (pg. 138). Ma in più intendo aggiungere due casi eclatanti del non adeguamento dei toponimi di sostrato alle norme fonetiche latine e neolatine: I) Numerosi toponimi ossitoni, come Alá, Barí, Bidoní, Buddusò, Lodè, Onaní, Torpè, ecc. ecc. non rispettano la fonetica latina, che rifiutava la ossitonia; II) Numerosi toponimi barbaricini caratterizzati dal cosiddetto "colpo di glottide" non lo ho hanno tuttora trasformato nella consonante velare sorda oppure sonora. Circa il 2° punto dico di trovarmi di fronte all'imbarazzo della scelta: tutti i seguenti toponimi sardi risultano irregolari o a-normali rispetto alle "norme" della fonetica storica sarda in riferimento alla base originaria, realmente documentata o verosimilmente supposta: Assemini, Borutta, Cagliari, Cedrino, Cuglieri, Florinas, Fordongianus, Logudoro, Macomer, Mandas, Marmilla, Monastir, Olmedo, Oristano, Riola, Sarrabus, Solarussa, Sorabile, Villacidro, Villasor, Zeddiani, ecc. ecc. E giudico almeno "strano" che il collega Wolf sorvoli sull'esempio, enormemente significativo, che gli ho messo sotto gli occhi: toponimo Grukes di Nùoro rispetto all'appellativo nuorese rukes. A questo proposito il Wolf sostiene che in questi casi debbono essere i linguisti a trovare le motivazioni della rottura della chaîne phonétique; questo è esatto, dico io, ma aggiungo che talvolta i linguisti trovano modo di spiegare la mancanza di anelli in quella catena, talaltra non ci riescono affatto. Sul 3° punto non mi resta altro che ripetere e ribadire quanto ho avuto già modo di obiettare al Wolf: «Nello studio di una qualsiasi lingua tutti i linguisti, nel tentativo di spiegare particolari trasformazioni fonetiche, sono soliti richiamare trasformazioni analoghe di altre lingue, anche molto distanti fra loro, geneticamente e pure nello spazio e nel tempo». Invece il Wolf mi obietta che «non si spiega l'etimologia d'un vocabolo francese o rumeno per mezzo di una regola fonetica valida per il portoghese». Ma io non ho richiamato una analogia fra il sardo e l'eschimese, bensì fra un dialetto ed un altro della medesima lingua sarda. Molto più importante è la differenza che esiste fra me ed il Wolf circa il 4° punto, molto più importante perché mi offre l'occasione di discutere un argomento che né io né lui abbiamo toccato nella nostra discussione precedente. È appena il caso di accennare al fatto che la Historische Lautlehre des Sardischen (HLS; 1941) del Wagner è un'opera fondamentale ed anzi essenziale nello studio della lingua sarda. Ebbene, quest'opera ha il merito di presentare la situazione fonetica della lingua sarda relativamente ai primi trentanni del Novecento. Per i decenni e secoli precedenti il Wagner si è dovuto limitare a fare riferimento ai pochissimi testi scritti in sardo; col risultato finale che per quei secoli noi ora sappiamo quasi nulla circa la esatta situazione fonetica dei dialetti e suddialetti sardi. Ebbene, il Wolf invece in parecchi suoi interventi ha mostrato di essere convinto di conoscere alla perfezione tutti i tempi storici della fonetica della lingua sarda e per tutte le aree geografiche; ed in base a questa sua convinzione egli è intervenuto a condannare qualcuna delle mie etimologie. Ma su quali documenti scritti delle lingua sarda egli basa la sua certezza di conoscere alla perfezione la fonetica storica dei secoli passati e di tutte le zone della Sardegna? Una situazione particolarmente fortunata ci viene di certo fornita per i secoli XI-XIII dai condaghi di Silki e di Trullas (CSPS e CSNT) per la Sardegna nord-occidentale, mentre per la Sardegna meridionale siamo in una differente situazione di certezza, dato che risulta ormai accertato che le Carte Campidanesi dell'Arcivescovado di Cagliari hanno subito interpolazioni successive. Ma per la stessa Sardegna nord-occidentale è forse sicuro il Wolf che la fonetica dell'area sassarese fosse perfettamente uguale a quella dell'Anglona, tanto da escludere che al toponimo Alaterru del CSPS 285 corrisponda l'altro Lauerru (cioè Laverru) del CSPS 82? Per il secolo XIV le Rationes Decimarum sono pochissimo attendibili circa la forma fonetica dei toponimi citati, come mostra il fatto che per il medesimo torno di anni il medesimo toponimo viene citato in forme assai differenti. E non parliamo poi dei secoli successivi, nei quali dalla invenzione della stampa ci saremmo pure aspettati buone documentazioni sulla fonetica sarda dei secoli XVI, XVII e XVIII; invece le pochissime opere scritte in sardo e pubblicate in quei secoli, uscite come sono dalle mani di uomini di cultura, ci presentano un sardo notevolmente inquinato da cultismi, catalanismi, spagnolismi e italianismi, che ovviamente ci dicono poco o nulla circa la effettiva fonetica della lingua sarda in quei secoli. Dunque, è certo che noi ignoriamo quasi completamente la esatta fonetica della lingua sarda come era parlata dal secolo XIV al XIX; ragion per cui certe condanne emesse dal Wolf in nome di quella fonetica sono in massima parte ingiustificate. Ad es., il Wolf respinge la mia derivazione del toponimo Pau, già citato nel Condaghe di Bonarcado (CSMB), dal lat. pagus «villaggio», probabilmente perché non accetta la caduta della consonante velare; ma che ne sa lui di quella che era la esatta fonetica che vigeva in quella zona e in quel periodo? Perfino quel prezioso documento medioevale non è sempre del tutto attendibile, come dimostra il fatto che nella stessa scheda 66 in cui compare per la prima volta Pau, vengono riportati sanctu Agustinu, sanctu Augustinu e sanctu Austinu, Agustis ed Augustis. A ben pesare, il Wolf si sta accollando la parte di Cerbero a difesa di tanta parte della fonetica del sardo antico che nessuno conosce, nemmeno lui. Il Wolf mi rimprovera il fatto che io non abbia citato i paesi in cui Núgoro vien pronunziato Núkoro. Ma questo rimprovero mi offre la bella occasione di precisare un altro fatto assai importante, del quale finora egli mostra di non aver fatto caso: rispetto alla lingua sarda il Wolf è un documentarista ed un linguista. Io invece, oltre che essere un documentarista ed un linguista, sono anche un testimone, un testimone che parla la lingua sarda da quando è nato e la parla da circa ottant'anni con suoi concittadini parlanti tutte le varietà dialettali del sardo. Ma se è un fatto che io riguardo alla lingua sarda sono un testimone, il Wolf non mi deve chiedere dove io abbia sentito chiamare la «ciliegia» anche crèsia e dove abbia sentito pronunziare Núgoro anche Núkoro. Quando io feci notare circa 50 anni fa quest'ultima circostanza al Wagner, egli non mi rimproverò di non aver detto dove esisteva questa pronunzia. Circa poi la etimologia che ho prospettato su Núoro/Núgoro, non è corretto che il Wolf si richiami a quanto avevo scritto una prima volta quasi 50 anni fa, nel mio primo libretto che era "giovanile" da tutti i punti di vista; egli doveva fare riferimento a quanto ho scritto nel mio libro che ha recensito, che è del 1997. D'altronde già nel 1956 avevo messo sotto gli occhi del Wagner una norma fonetica che a lui era sfuggita del tutto: "Nel dialetto centrale la vicinanza di una r tende a sonorizzare la velare sorda, trasformando dunque il k in g(h)" (cfr. M. Pittau, Grammatica del Sardo-Nuorese, § 72). E neanche su questo il Wagner mi aveva fatto alcuna obiezione. Ed a questo proposito può risultare interessante al Wolf ed ai lettori sapere ciò che il Wagner mi scrisse in una lettera del 21 dicembre 1956: «Interessantissimo è anche quello che Lei dice di Saligurru, di Filigore, Filigorru e Neulágoro, e sono perfettamente d'accordo con Lei per l'interpretazione. Ammetto che così la Sua spiegazione di Núgoro diventa più plausibile». Il mio recensore mi rimprovera anche perché «ho postulato due evoluzioni fonetiche differenti nel medesimo luogo» (pg. 135); ed io gli metto sotto gli occhi il caso ben tre evoluzioni fonetiche differenti che si constatano a Núoro nel suo arcaico e conservativo dialetto: la -B- latina si conserva, ad es. in cubare < CUBARE, si trasforma in -v- in fávula < FABULA, dilegua in néula > NEBULA (Grammatica del Sardo-Nuorese, § 67). Il Wolf poi è stato imprudente ad ironizzare sul fatto che io abbia ricordato che sono nato e vissuto a un tiro di schioppo da Orgosolo e che ho avuto numerosi discepoli ed amici orgolesi: non si tratta infatti della sola differenza di chilometri, che distingue me da lui che vive a Bonn, ma si tratta del fatto che - come si dice nel gioco del calcio - "io gioco in casa", mentre "lui gioca fuori casa". La quale cosa viene espressa da un proverbio sardo che è stato richiamato, in un articolo pubblicato in un settimanale nuorese, da un amico barbaricino che ha assisto alla nostra diatriba: «Viet mezus unu maccu in domo sua chi no unu sápiu in domo anzena». D'altra parte, che cosa io effettivamente penso di gran parte delle etimologie di toponimi sardi da me prospettate nel mio libro in questione? L'ho già detto nella Prefazione: le mie sono etimologie solamente probabili o verosimili, più o meno probabili o verosimili; ciò come conseguenza del fatto che in linguistica storica manca la possibilità della "verifica", ossia la possibilità di procedere alla ripetizione sperimentale dei fatti e degli eventi del passato, ed inoltre come conseguenza del fatto che nella toponomastica molto spesso manca del tutto la coordinata semantica, dato che molti toponimi hanno finito col perdere il significato originario, finendo col diventare del tutto opachi per il parlatore ed anche per il linguista. Dubbi dunque su parecchie mie etimologie ne ho molti anche io; eppure ho osato proporle per il fatto che sono convinto che anche una ipotesi azzardata, che alla fine potrebbe risultare perfino errata, è molto utile per il progresso della scienza linguistica. Al Wolf, che possiede anche la laurea in filosofia, proprio come me, mi permetto di ricordare ancora un principio essenziale in epistemologia: la scienza, ogni scienza, viene fondata e fatta progredire col dire, anche col dire sbagliato, e mai col tacere. Presenti il Wolf etimologie migliori delle mie e non avrò alcun dubbio a respingere le mie e ad accettare le sue; invece fino ad ora egli si è limitato a criticare le mie, senza mai presentarne alcuna sua. Ed ora vengo ad alcuni casi specifici. Per quanto riguarda Semestene accetto appieno le critiche che mi ha fatto il Wolf: tutte le forme antiche del toponimo sono Semeston, per cui ho errato effettivamente e gravemente nel prospettare una etimologia fatta sulla forma recente del toponimo. In proposito dico che io stesso mi stupisco della mia grande disattenzione... Così pure riconosco che - ancora per grave disattenzione - ho errato a chiamare in causa il dialetto sassarese rispetto al toponimo Sorso, il quale risulta attestato nel CSPS molto prima che nascesse quel dialetto. E tuttavia difendo ancora la mia etimologia di Sorso dal lat. *deorso «giù» (REW 2567, DES I 710), col significato di Bidda o Funtana de Josso. Non mi dà alcun fastidio il fatto che nel medesimo CSPS l'avverbio compare come josso, dato che ho già detto e ribadisco che spesso i toponimi si distaccano dal resto dell'altro lessico subendo uno sviluppo fonetico differente e deviante. Il grande Wagner, nella sua grande HLS, non ha intravisto la sorte che stava subendo il fonema th di fronte all'incalzare dell'italiano che quel fonema non conosce. Esso stava per diventare da un lato tt (petha > petta), dall'altro tz > ss (petza, pessa) (Grammatica del Sardo-Nuorese, § 26). E per questo fatto nessuna difficoltà fonetica si oppone all'accostamento da me effettuato del toponimo di Desulo Issiría con thiría «ginestra spinosa». Però il Wolf mi dice che «occorrerebbe spiegare l'Is- iniziale»: ma io l'ho già fatto! E se non gli basta quanto avevo già scritto nel mio libro, può leggere cosa ho aggiunto sull'argomento nel mio Dizionario della Lingua Sarda (Cagliari 2000) pg. 912 ed anche in quello recentissimo La Lingua Sardiana o dei Protosardi (Cagliari 2001, E. Gasperini) pgg. 191-192. Circa la connessione che io faccio della lingua sardiana o dei Protosardi con quella etrusca e più precisamente circa la matrice indoeuropea di questa, il Wolf non avrebbe dovuto limitarsi a stare sul generico, ma avrebbe dovuto esaminare ed eventualmente respingere tutti i numerosi richiami che io faccio all'indoeuropeo nel mio libro La Lingua Etrusca - grammatica e lessico (Nùoro 1997, ediz. Papiros). In via particolare il mio recensore mi invita a «procedere alla elaborazione di una fonetica storica al fine di inserire l'etrusco nella famiglia indoeuropea». Ma io ho fatto di più e di meglio: ho indicato numerose connessioni morfologiche, che sono molto più importanti e significative di quelle fonetiche! È poi piuttosto "strano" che egli mi inviti ad indicare «almeno il nome dei colleghi più conosciuti dell'ultima generazione che condividerebbero la mia veduta». In fatto di etruscologia linguistica io ormai non ho maestri e non ho necessità di chiedere consensi da nessuno, dato che la mia autorità sull'argomento me la sono conquistata, con i denti, in questi modi: 1) Scrivendo e pubblicando la mia raccolta di Testi Etruschi tradotti e commentati (Roma 1999, Bulzoni Editore), che contiene il più alto numero di iscrizioni etrusche mai tradotte o tentate di tradurre; 2) Scrivendo e pubblicando la mia citata ampia ed impegnativa opera La Lingua Etrusca, che attende ancora di essere giudicata e criticata da chi sia all'altezza di farlo; 3) Prendendo a sculaccioni numerosi sedicenti linguisti etruscologi, che non sono altro che archeologi, in un mio intervento fatto nell'XI Convegno Internazionale di Linguisti del 1998 (Milano), da me pubblicato come appendice nel mio libro Tabula Cortonensis - Lamine di Pirgi e altri testi tradotti e commentati (Sassari 2000); 4) Presentando la mia interpretazione e traduzione della Tabula Cortonensis in queste sedi e località: Sodalizio Glottologico Milanese (due volte, la seconda con le nuove acquisizioni ermeneutiche); Accademia Toscana di Scienze e Lettere "La Colombaria" di Firenze; la Biblioteca Queriniana di Brescia; l'Assessorato alla Cultura di Cerveteri; Università di Venezia, Facoltà di Architettura; Università di Pavia, Facoltà di Lettere; Accademia Lucchese di Scienze ed Arti (in queste due ultine sedi chiamato dai linguisti Onofrio Carruba e Riccardo Ambrosini). All'obiezione del Wolf, secondo cui gli Etruschi non avrebbero costruito nessun nuraghe, rispondo in primo luogo invitandolo a leggere quanto io avevo scritto sull'argomento nel mio libro (però ormai superato in molti punti) La Lingua dei Sardi Nuragici e degli Etruschi, § 39, in secondo luogo ricordandogli una tesi ormai del tutto pacifica tra i linguisti: la lingua non si indentifica con la cultura; ragion per cui Nuragici ed Etruschi potevano avere due culture differenti ed avere invece due lingue affini. Ma poi, perché il Wolf non ricorda che il merito - o il demerito - di aver indicato per primo nel sostrato protosardo anche una componente tirrenica-etrusca spetta non a me, bensì a J. Hubschmid, Sardischen Studien, Bern 1953, e Paläosardischen Ortsnamen (Firenze 1963)? Inoltre, è mai possibile che il Wolf affermi con totale sicurezza che «non esiste» una certa variante di un appellativo sardo? L'ho già detto e lo ribadisco: nella documentazione linguistica vale la testimonianza positiva, mentre non vale quasi nulla la testimonianza negativa, soprattutto se viene fatta da una persona che non ha la lingua in questione come sua lingua materna. D'altronde io non ho affatto citato una forma *tethi, bensì l'altra rethi, per la quale, come testimone, io non ho alcun obbligo di presentare documentazioni, mentre mi limito solo a rimandare alla rispettiva voce del mio Dizionario della Lingua Sarda e del mio recentissimo libro La Lingua Sardiana o dei Protosardi. Il Wolf si lamenta del fatto che io non abbia tenuto presenti le critiche che egli aveva mosso in RLiR 61 (1997) alla mia etimologia di Monte Ortovene dal lat. ortivus «levante, nascente, sorgente, oriente» + suff. sardiano -ène, da interpretarsi dunque come «Monte del (sole) nascente» o «Monte del (sol) levante». Ed io ripeto che il mio libro I nomi di paesi città ecc. si configura come un «vocabolario della macrotoponimia della Sardegna», per cui non potevo in esso sottoporre a discussione tutte le tesi differenti di autori che mi avevano preceduto (riconosco invece che questa operazione è doverosa in articoli di riviste specializzate); il non citare quelle differenti tesi era ed è segno che io non le condividevo né le accettavo. Ma dato che insiste sulle sue critiche, oggi gli rispondo in questo modo: I) Il fatto che tutta una serie di toponimi protosardi presenti il radicale ort-, non impedisce affatto che Ortovene possa essere estraneato da quella serie; II) Il fatto che il rarissimo aggettivo lat. ortivus non abbia avuto altri continuatori romanzi, non impedisce affatto che possa avere avuto un seguito nel sardo; proprio il Wolf ha il merito di aver dimostrato che alcuni appellativi sardi risultano essere gli unici continuatori di altrettanti appellativi latini; III) Io ho dichiarato verosimile che il radicale ort- «sorgere» esistesse anche nella lingua sardiana o protosarda. Per il toponimo Anela, che io ho spiegato come derivato da un lat. (via) anhela «(strada) faticosa o ripida», basandomi anche sul fatto che è documentato un lat. mons anhelus «monte faticoso o ripido», il Wolf mi rimprovera di aver "disgraziatamente" omesso di indicare l'autore di tale passo. L'autore e il sito di quel passo è "fortunatamente" indicato nel ThLL che il Wolf ha consultato; ma è del tutto inutile che noi apriamo qui una discussione sull'esatto significato del passo. Infatti, siccome il ThLL presenta per anhelus come primo significato qui movet anhelitus, è del tutto facile dedurne che una via anhela avrà significato una «strada che provoca affanno», cioè una "strada in forte salita". Circa il toponimo *Ovòrqe io avevo già pacificamente riconosciuto non poter essere un toponimo propriamente orgolese e quindi non merito ulteriori rimproveri da parte del Wolf. D'altra parte adesso ritengo di avere trovato la esatta forma del toponimo, in quello che l'orgosolese prof. Battista Salis scrive come Ohorghe e che io preferisco scrivere Oqorghe (l'uso della q per indicare il colpo di glottide barbaricino è molto più ragionevole che non l'uso di un punto interrogativo dimezzato e del resto si sta ormai affermando nei paesi della Barbagia). Finisco con un invito che faccio al collega Wolf: dovrebbe meditare alquanto sul fatto che, in ordine alle mie capacità di linguista, il grande Wagner, anche quando mi dava torto, mi trattava molto meglio di quanto mi tratta lui... Massimo Pittau |
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