I SARDI FRA I POPOLI DEL MARE
La partecipazione degli antichi Sardi alle imprese dei cosiddetti
“Popoli del Mare” o “Popoli delle Isole” o “Popoli Nordici”, che a più
riprese tentarono l'invasione dell'Egitto all'epoca dei faraoni
Merneptah (1236-1223 a. C.) e Ramesses III (1198-1166 a. C.), era stata
per la prima volta formulata da E. De Rougè, nella «Révue
Archéologique», XVI (1867, pag. 35 segg.) e in seguito da F. Chabas, Études sur l'antiquité historique d'après les sources égyptiennes et les monuments reputés prehistoriques
(Chalon 1872). Per la loro tesi i due studiosi francesi si erano
fondati sulle notevoli somiglianze del vestiario e dell'armamento dei
“Popoli del Mare”, quali appaiono nei bassorilievi dei monumenti egizi,
col vestiario e armamento degli antichi Sardi, quali figurano in
bronzetti nuragici, che già nell’Ottocento cominciavano a essere
conosciuti anche in Europa. In seguito quella proposta di
identificazione è stata accettata da quasi tutti gli autori che hanno
approfondito il problema, sia pure con atteggiamento più o meno deciso
oppure almeno possibilista. Fra questi sono da citare i seguenti
autorevoli studiosi: G. Patroni, A. Taramelli, A. H. Gardiner, W. F.
Albright, M. Pallottino, H. Frankfort, R. D. Barnett, G. Pugliese
Carratelli e P. Zancani Montuoro.
In precedenza però lo storico Ettore Pais aveva respinto totalmente
e decisamente la tesi degli studiosi francesi E. De Rougè e F. Chabas,
e lo aveva fatto in un suo impegnativo studio che si era subito imposto
all’attenzione degli studiosi, Sardegna prima del dominio romano
(in «Atti della R. Accademia dei Lincei», VII, 1880-1881, pagg.
300-301). Esprimo il parere personale che in quest'opera giovanile del
Pais trionfa già, in maniera perfino eccessiva, quello che sarà il
punto fisso e debole dell'attività di questo pur illustre storico, l'ipercriticismo, cioè l’eccessivo rigore con cui egli analizzava e respingeva le testimonianze degli autori antichi, greci e romani.
Sta di fatto che questa posizione totalmente negativa di Ettore Pais
si è imposta ed ha trionfato in Sardegna per un secolo intero,
affermandosi soprattutto fra gli archeologi (escluso il solo
Taramelli), i quali mai più hanno fatto riferimento nei loro scritti e
nelle loro conferenze alla tesi della presenza degli antichi Sardi fra
i “Popoli del Mare”.
Chi ha ripresentato e analizzato di nuovo la questione della
partecipazione degli antichi Sardi alle imprese dei “Popoli del Mare” è
l’autore della presente nota. Nella «XXII riunione scientifica
dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria sulla Sardegna
centro-settentrionale, 21-27 ottobre 1978» (Atti, Firenze 1980), avevo
fatto un intervento intitolato «Gli Scerdani dell’antico Egitto e la
Sardegna nuragica».
Più tardi ho ripreso in esame la questione, parlandone in maniera essenziale sia nella mia opera Origine e parentela dei Sardi e degli Etruschi - saggio storico-linguistico (Sassari 1996), sia nell’altra più recente Storia dei Sardi Nuragici (Selargius CA 2007, Domus de Janas edit.).
In questi ultimi anni sono apparse in Sardegna alcune modeste pubblicazioni nelle quali viene affrontata di nuovo ed ex professo
la questione; ma si tratta di pubblicazioni il cui valore scientifico è
dato e dimostrato dal fatto che i loro autori hanno mostrato di non
conoscere per nulla la letteratura degli studiosi precedenti, quelli
che ho elencato poco fa.
Tutto ciò premesso, dico che non può non essere accolta con
attenzione e con soddisfazione l'ampia opera apparsa di recente
dell'archeologo Giovanni Ugas, Shardana e Sardegna, Cagliari 2016, Edizioni della Torre (pagg. 1022).
In primo luogo quest'opera costituisce quasi una summa di
tutto quanto è stato scritto fino ad ora sulla questione dei Popoli del
Mare, ragion per cui non potranno fare a meno di consultarla coloro che
volessero conoscerla ed approfondirla. In secondo luogo essa può
costituire una palestra per coloro che volessero approfondire l'intera
nostra civiltà dei Sardi Nuragici, con approfondimenti e discussioni
nient'affatto negative, bensì propositive.
Ed è proprio con questa prospettiva che io, nella mia qualifica di linguista, intendo intervenire su alcune questioni.
È tempo che gli archeologi sardi la finiscano di chiamare
“faretrine” le custodie dei pugnaletti nuragici. Infatti la “faretra”
era la custodia delle frecce, che si teneva appesa alle spalle dei
guerrieri, mentre la custodia dei pugnali si dice “guaina” ed era
appesa alla cinta.
Essi commettono un altro errore di lingua italiana quando chiamano
“stele centinata” quella delle tombe di gigante e pure di alcune domos de janas. In italiano invece centinato-a
significa «sostenuto-a da una impalcatura di legno o di ferro», che è
un significato nient'affatto riferibile ad un monumento nuragico in
pietra. In realtà la sagoma della stele indica la “porta
dell'oltretomba”, secondo un'antichissima simbologia degli Egizi, che è
entrata anche fra gli Etruschi. La lunetta superiore della stele
simboleggia la finestrella di scarico della porta.
In lingua sarda e precisamente in logudorese «la casa» si dice sa domo al singolare e sas domos al plurale, invece in campidanese si dice sa domu al singolare e is domus al plurale. È pertanto errato dire una domus, dato che questa frase corrisponderebbe a quella italiana una case.
Il vocabolo sardo su/sa mere, su/sa meri «il padrone, la
padrona; il signore, la signora» non ha nulla a che fare con l'antica
lingua egizia (Ugas pag. 408), mentre è una acquisizione recente
dall'antico francese maire «maggiore», il quale deriva dal lat. maiore(m) (REW).
È cosa nota che la lingua francese era quella adoperata nella Corte dei
Savoia e inoltre era quella dei nobili, ufficiali, impiegati e
intellettuali piemontesi. Ebbene sono stai proprio questi, ad iniziare
dal '700, a fare entrare nella lingua sarda il vocabolo francese maire.
Ed è perfino curioso che in quella zona molto conservativa che era ed è
l'Ogliastra sono tuttora conservati per il vocabolo in questione non
solo il significato, ma pure la grafia: su màire.
Fa male Giovanni Ugas ad esprimere dubbi sul significato dei Tirreni, Tirseni come «costruttori di torri, torriani, torrigiani». Da una parte infatti alla duplicità formale dei Tirreni, Tirseni corrisponde esattamente la duplicità della loro base týrris, týrsis
«torre», dall'altra il notevole e sorprendente numero di «torri
nuragiche» costruite dai nostri progenitori nell'isola come nessun
altro popolo e in nessun'altra terra; dall'altra infine la chiara e
precisa testimonianza di quell'autorevole geografo e storico che fu
Strabone (V, 2, 7), il quale, parlando dei Sardi originari, aveva detto
espressamente d' ḗsan de Tyrrenói «ed erano Tirreni».
Inoltre stupisce grandemente il fatto che uno studioso scrupoloso e
attento come è Giovanni Ugas abbia accettato la storiella dei
“Guerrieri pugilatori”, i quali porterebbero i guantoni da pugili e uno
scudo sulla testa per difendersi dai colpi degli avversari. A lui non
doveva sfuggire che quell'acuto e autorevole archeologo che fu Doro
Levi aveva giudicato il noto bronzetto di Dorgali come quello di un
cuoiaio che porta un guantone per difendere la mano e il polso dai
colpi errati del trincetto e del punteruolo e sulla testa un cuoio di
bovino offerto a una divinità. Floscio e pieghevole come risulta nel
bronzetto, quell'oggetto non poteva affatto essere uno scudo, il quale
per sua natura è sempre solido e rigido e mai floscio. E neppure scudo
protettivo è quello che “ridevolmente” è stato ricostruito sulla testa
di un guerriero di Monti Prama, in cemento armato con una struttura
metallica! oggetto che sfida l'intelligenza dei visitatori del museo
che lo conserva. Un “parapioggia” come questo non sarebbe stato
possibile col tipo di roccia con cui sono stati scolpiti tutti i
guerrieri di Monti Prama, l'arenaria!
Infine mentre l'ho l'obbligo di ringraziare il collega G. Ugas per
avere citato il mio studio sui Sardi fra i Popoli del mare dell'anno
1980, non lo posso invece ringraziare per aver egli ignorato un mio
intero libro intitolato «Gli antichi Sardi fra i “Popoli del Mare”»,
pubblicato a Selargius nel 2011 dalla editrice Domus de Janas.
Massimo Pittau, 2017
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