Gli eroi del piccone Due storici di rilievo, Ettore Pais e Raimondo Bachisio Motzo, avevano invitato Antonio Taramelli a dare una delineazione della civiltà nuragica non dall’unico angolo visuale dell’archeologia, ma anche da quello di altre discipline dell’antichistica. Ma il Taramelli non se l’era data per intesa, tanto è vero che in due differenti occasioni, in implicita polemica coi due storici, aveva scritto testualmente: «L’archeologia preistorica è oggi matura nei suoi metodi e nelle sue ricerche; non è più la modesta ancella sussidiaria, ma raggiunge le sue proprie conclusioni in base alle osservazioni proprie ed ai suoi propri metodi. Se queste si accordano con quelle raggiunte dalle scienze affini, tanto meglio; se no tanto peggio per quelle» (anno 1929). «Con tutto il rispetto alle fonti ed ai loro sagaci commenti, sia permesso a me archeologo, di avere fede, speranza ed amore principalmente nell’indagine archeologica. Nell’indagine del passato tenebroso, lontano ed incerto la mia luce è quella della punta luminosa del mio piccone» (anno 1934). Probabilmente anche in polemica implicita col Taramelli, ecco cosa ha scritto più tardi Sabatino Moscati, studioso di larga fama nazionale e internazionale: «Se mai vi dedicherete all’archeologia, ricordate una massima: il piccone è l’ultima cosa. E cioè, per spiegarci meglio, il successo di un’impresa archeologica dipende in misura decisiva dalla conoscenza delle antiche fonti, dallo studio della geografia storica, in una parola dalla ricostruzione della vita del passato in cui la nuova ricerca si inserisce; quanto al fatto materiale dello scavo, esso è solo il coronamento di un’opera in cui la dottrina e l’intuizione hanno parte essenziale» (S. Moscati, Archeologia mediterranea, Milano 1966, pag. 138). A distanza di circa 80 anni da quando il Taramelli scriveva i suoi citati inequivocabili convincimenti personali, c’è da osservare che «la fede, la speranza e l’amore principalmente nell’indagine archeologica», nonché attenuarsi negli archeologi successivi, forse si sono ulteriormente accentuati. Nulli o quasi nulli sono i loro richiami alle antiche fonti scritte, soprattutto quelle greche. Sia sufficiente citare un esempio solo, ma molto significativo: a cominciare dal Taramelli fino ai giorni nostri nessun archeologo ha mai citato la testimonianza dello storico greco Diodoro Siculo (Biblioteca historica, V 15, 2), il quale, parlando dei nuraghi della Sardegna li definisce «templi degli dèi» (cfr. M. Pittau, La Sardegna Nuragica, II ediz., Cagliari 2006, Edizioni della Torre, pagg. 25-26. 112). Massimo Pittau |
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