PALEOSARDO: FINE DI UN REBUS
(che non esisteva)
Nell’ultimo fascicolo della rivista «Quaderni Bolotanesi» (num. 36 del
2010) il catalano Eduardo Blasco Ferrer, professore di Linguistica
Sarda nell’Università di Cagliari, ha pubblicato un articolo, il quale
è tutto un inno di vittoria, un grido di gioia dell’Autore. Già nel
titolo egli proclama a gran voce e rivendica la gloria di avere
finalmente risolto un rebus,
quello che, secondo lui, sarebbe stato il Paleosardo - o Protosardo,
cioè la lingua che parlavano i Sardi prima della conquista della
Sardegna da parte di Roma e prima della loro latinizzazione linguistica
-: egli proclama la tesi secondo cui il Paleosardo appunto sarebbe
legato al Paleobasco, cioè alla lingua che avrebbero in antichità
parlato gli odierni Baschi della penisola iberica. Egli perfino si è
vantato con aria di trionfo che codesta sua tesi sarebbe «ormai
saldamente accettata nella Comunità scientifica internazionale» (vedi
I.Ingrassia & E. Blasco Ferrer, Storia della lingua sarda,
Cagliari 2009, pag. 20) e quasi come prova di ciò nel suo articolo
presenta un lungo elenco di linguisti, italiani e stranieri, che per
l’appunto condividerebbero la sua rivoluzionaria e definitiva scoperta.
Senonché – comincio io con l’osservare – siccome di nessuno di questi
numerosi linguisti egli cita mai una frase, una sola frase di
approvazione, viene spontaneo il dubbio che in realtà egli non faccia
altro che “millantare credito” o – detto con altre parole – egli
proceda come il corvo della favola che si faceva bello con le penne del
pavone.
Anche i linguisti che prima di lui si sono interessati del Paleosardo,
li cita quasi tutti: M. L. Wagner, J. Hubschmid, F. Ribezzo, A.
Trombetti, V. Bertoldi, C. Battisti, G. Devoto, M. Pittau, però il
Blasco non si degna di discutere una, dico una sola tesi di questi
linguisti, evidentemente perché li ritiene tutti produttori di
“zavorra”, non degna pertanto di alcuna considerazione.
Nel suo articolo il Blasco fa numerose e lunghe disquisizioni sulla
“metodologia linguistica”, asserendo di conoscerla e adoperarla
soltanto lui, però in effetti egli cade in una serie di gravi errori
proprio di carattere metodologico.
Un primo suo grave errore di “metodologia scientifica” tout court,
consiste nel fatto che egli dimentica il primo e fondamentale metodo al
quale si deve ispirare uno scienziato, specialista in una qualsiasi
disciplina, quello affermato e adoperato già dai Medioevali, il quale
dichiarava che la scienza si costruisce Probando et reprobando. Questo
famoso principio metodologico non va tradotto né inteso come «Provando
e riprovando» - come spesso purtroppo si fa - ma va intenso come
«Provando la propria tesi e criticando e respingendo quella precedente
altrui». Insomma il Blasco prima di prospettare la sua tesi
rivoluzionaria “Paleosardo = Paleobasco” avrebbe dovuto distruggere le
tesi dei linguisti che lo hanno preceduto sull’argomento; operazione
invece che egli non ha fatto mai. Ed è, questo, un secondo errore
metodologico del Blasco, quello di affrontare un problema linguistico
ignorando del tutto l’esistenza di un intero libro di 232 pagine
pubblicato sul medesimo argomento da un suo collega: Massimo Pittau, La Lingua Sardiana o dei Protosardi»
(Cagliari 2001). Io non credo che esista nell’Università un professore
che non respinga già in partenza la bozza di una tesi di laurea di un
suo allievo, il quale abbia ignorato l’esistenza o non abbia tenuto in
considerazione un’intera opera dedicata al medesimo argomento della sua
tesi di laurea. E questo medesimo argomento io ho trattato di nuovo
approfondendolo e migliorandolo in una appendice del II volume del mio «Dizionario della Lingua Sarda – fraseologico ed etimologico»
(Cagliari 2002), che si trova in tutte le principali biblioteche della
Sardegna. Ed invece il chiarissimo professore Blasco Ferrer si permette
di ignorare del tutto due interi libri, che trattano il medesimo
argomento dei suoi studi, pubblicati nella città dove egli insegna….
Bell’esempio di serietà metodologica e scientifica offerto da un
professore d’Università ai propri allievi! Ma l’errore metodologico
più grave, più grosso, madornale e quasi incredibile è quello che
commette il Blasco, quando, finite le elucubrazioni teoriche, affronta
finalmente i fatti linguistici da analizzare e spiegare.
C’è da premettere che anche del Paleosardo come lingua di sostrato,
esistono due tipi di relitti, gli “appellativi” e i “toponimi”. Per gli
appellativi noi conosciamo due fattori, il «significante» e il
«significato» e per essi la ricerca è possibile e anche relativamente
facile, dato che è fondata sui due citati fattori: ad esempio,
paleosardo baccu (significante), «vallone» (significato), da confrontare – non derivare - col greco bakchóa = bóthros (Esichio) (significante), «fossa» (significato); paleosardo cheja (significante), «buca» (significato), da confrontare col pregreco cheiá (significante), «cavità» (significato); paleosardo colóstri (significante), «agrifoglio» (significato), da confrontare col pregreco kélastros (significante), «agrifoglio» (significato), ecc.
Invece nei toponimi paleosardi Anghiddái, Arbauli, Ardauli, Ballacò, Barumele, Baunéi, Creccheríe, Crobèna,
ecc. ecc., noi conosciamo soltanto il “significante”, mentre ignoriamo
del tutto il “significato”, che pure di certo essi avevano in origine.
Per questa ragione li dobbiamo chiamare “toponimi opachi”, nel senso
che non ci fanno trasparire nulla sul loro “significato” originario.
Ebbene, il Blasco ha ignorato del tutto gli “appellativi” del
Paleosardo (sui quali invece abbiamo lavorato in maniera particolare il
linguista svizzero J. Hubschmid ed il sottoscritto; nel mio citato
libro ne ho elencato e studiato circa 350!), mentre il Blasco si è
buttato del tutto sui “toponimi opachi”, con risultati che sono del
tutto campati in aria, comportandosi esattamente come tanti dilettanti
che proprio su questi toponimi opachi si sbizzarriscono con le tesi più
svariate e più stravaganti. Ed ecco come il Blasco procede:
prende un qualsiasi “toponimo opaco” e lo tagliuzza sillaba per
sillaba, anzi fonema per fonema come se fosse un salsicciotto da
tagliare a fette: Govosoleo, G/ov/os/ol/eo; Lisorgoni, L/is/org/on/i; Ovostolai, Ov/ost/ol/ai; Talaristini, Tala/r/istin/i;
poi confronta le fette ottenute con quelle di un salsicciotto
paleobasco, ugualmente affettato, attribuendo ad ogni fetta un
“significato” particolare, del quale non presenta alcuna prova.
Inoltre, dato che quelle fette di sillabe e di fonemi possono essere
riunite di nuovo tra loro, il Blasco arriva anche ad affermare – niente
di meno - che, dunque, il Paleosardo era una lingua agglutinante!
Procedimenti non scientifici, questi, ma orripilanti o – se si
preferisce - esilaranti, degni del più fantasioso e bizzarro dei
dilettanti! E il Blasco non evita neppure il ridicolo quando prende
e considera come toponimi paleosardi, alcuni che invece sono
clamorosamente neolatini, ossia derivati dal latino: cognome Arzu (= Vargiu) = (v)arzu «che ha gli occhi celesti», dal lat. varius; Bruncu dolau «cima spianata oppure levigata», dal lat. dolare; Urau «(bestiame/terreno) rubato», dal lat. furare; Mandas = mandras «recinti per bestiame», dal lat. mandra; Mele, Melis comunissimi cognomi sardi che corrispondono rispettivamente al log. mele e al camp. meli «miele» e derivano dal lat. mel «miele» (con la –s del plurale di famiglia); Ortorù = Ortu ‘e ru «orto di rovi», dai lat. hortu(m), rubu(m).
Già, il latino: probabilmente aveva ragione un commissario di minoranza
del concorso con cui il Blasco ha conseguito la cattedra di Linguistica
Sarda (i cui verbali sono pubblici, tanto che si possono leggere anche
in internet), quando scriveva nel suo giudizio: «il Blasco non conosce
il latino». Che è un giudizio pesantissimo a carico di un docente che
ha insegnato nell’Università Filologia Romanza, Storia della Lingua
Italiana ed insegna Linguistica Sarda ….
Concludo con alcune notazioni purtroppo di carattere personale.
Nell’articolo in questione il Blasco ha anche scritto che «la Comunità
scientifica ha già stroncato in più sedi internazionali le note ipotesi
sulla parentela del Paleosardo con l’Etrusco (Massimo Pittau) e quella
più recente che considera la lingua encorica dell’Isola un sistema
“italide” vicino al Latino (Mario Alinei)»; ed anche questa volta, con
disonestà scientifica e pure umana, il Blasco non ha citato nessun
autore e nessuno scritto. Ed io gli rispondo commentando: è ben vero
che quella mia ipotesi non è stata finora accolta con entusiasmo, ma
neppure è stata mai stroncata da nessun linguista vero e proprio. E la
ragione principale di questo silenzio da parte dei linguisti è
semplice: per giudicare quella ipotesi è necessario conoscere bene sia
il Paleosardo sia l’Etrusco ed è del tutto certo che il Blasco non
conosce né l’una né l’altra lingua, per cui parla a vanvera di cose che
non conosce.
Il mancato entusiasmo poi con cui dai linguisti è stata finora accolta
la mia ipotesi, deriva anche dal fatto che, il continuo proliferare di
genialoidi scopritori di “chiavi di decifrazione dell’etrusco” (cosa
che io non ho fatto) ha sinora predisposto negativamente tutti,
linguisti, archeologi e storici, di fronte a qualsiasi nuova tesi che
venga prospettata sulla lingua etrusca. D’altra parte non sono mancati
pure i riconoscimenti per la mia ipotesi, come dimostra il fatto che
sono stato chiamato a fare conferenze in numerose località della
Toscana e che due riviste di cultura di Firenze da alcuni anni
pubblicano quasi fascicolo per fascicolo un mio articolo sulla lingua
etrusca, la rivista «Il Governo delle Idee» e quella molto diffusa
«Microstoria».
Ancora prova di disonestà scientifica ha dato il Blasco quando in
un’altra sua recente opera ha scritto che il Pittau farebbe derivare il
Paleosardo dall’Etrusco: «linea evolutiva diretta che porterebbe
dall’etrusco agli esiti sardi dialettali odierni» (E. Blasco Ferrer, Linguistica Sarda,
Cagliari 2002, pag. 37); affermazione del tutto falsa, dato che io mi
sono limitato ad affermare che “il Paleosardo e l’Etrusco sono due
lingue affini” e non che il primo sia “derivato” dal secondo.
D’altronde egli ha anche ignorato che quella mia tesi, sostenuta 30
anni fa, io l’ho riveduta e aggiustata nel mio recente libro già citato
La Lingua Sardiana o dei Protosardi, nel quale ho dimostrato che nei relitti del Paleosardo esistono segni di vari e differenti filoni linguistici.
Massimo Pittau
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