Archeologia Fenicio-Punica in Sardegna

Per i tipi della casa editrice cagliaritana CUEC, in elegante veste tipografica, il professore nella Facoltà di Lettere di Sassari Piero Bartoloni ha di recente pubblicato un libro intitolato Archeologia Fenicio-Punica in Sardegna – Introduzione allo studio. A mio giudizio si tratta di un’opera di notevole spessore scientifico, la quale tanto più si fa apprezzare, se viene confrontata con una precedente opera di Ferruccio Barreca, intitolata La Sardegna fenicia e punica, pubblicata in prima edizione nel 1974. Nonostante la sua fortuna editoriale, quest’opera del Barreca era nella sostanza inficiata da quella che non riesco a definire meglio, “ubriacatura di feniciomania e punicomania”. Nella Sardegna antica il Barreca vedeva Fenici e Punici o Cartaginesi numerosi e dappertutto. Sia sufficiente fare riferimento alla cartina degli insediamenti fenicio-punici in Sardegna (tav. II) e si constata che ne sono indicati ben 118, quasi in tutte le sue zone, nelle coste ma anche nelle zone interne e perfino in quelle montane. D’altronde il Barreca era stato preceduto, di qualche anno, da un altro autore, Sabatino Moscati, il quale nella sua opera Fenici e Cartaginesi in Sardegna (Milano 1968, pgg. 24-25) li aveva indicati presenti anche a Orgosolo, Gavoi, Teti, Aritzo e Meana. E in effetti i due autori avevano finito col trasformare i Fenici e i Cartaginesi, da naviganti e commercianti come tutti ritenevamo di sapere, in veri e propri conquistatori e montanari.
Ebbene, col suo libro il Bartoloni ha il notevolissimo merito di avere ridimensiato parecchio la presenza dei Fenici e dei Cartaginesi in Sardegna, riportandola ad una entità che qualsiasi studioso, archeologo o storico o linguista, potrebbe accettare.
Il Bartoloni poi si fa apprezzare perché molte volte dimostra di essere aperto a prospettive differenti per la soluzione di problemi da lui trattati, mentre altri archeologi si dimostrano quasi sempre tassativi e categorici nella prospettazione delle loro tesi.
Ancora il Bartoloni dimostra di possedere una conoscenza ampia e approfondita della storia di quello che è il reperto basilare della ricerca archeologica, il vasellame di argilla, e perfino della tecnica minuta della sua lavorazione, come pure di quella della lavorazione dei metalli. E tutto questo è raro trovarlo fra archeologi anche provetti e famosi.
La riproduzione fotografica del materiale archeologico presentato dal Bartoloni è molto bella e significativa; con la sola eccezioni delle fotografie aeree di zone archeologiche, le quali purtroppo hanno scarsa valenza dimostrativa e didattica. Addirittura la serie delle fotografie della pagina 55 risulta capovolta, ma per evidente errore del tipografo.
Ed ora mi permetto di fare all’egregio collega alcune obiezioni, che sono di carattere linguistico, fatte da un linguista di professione ad un archeologo di professione.
Ho già detto che il Bartoloni ha il notevole merito di avere ridimensionato in misura notevole la presenza dei Fenici e dei Cartaginesi in Sardegna; ma io linguista lo invito a fare qualche passo di più in questa direzione.
Perché su questo preciso argomento gli archeologi vengono contraddetti in maniera chiara e decisiva dalla linguistica storica: nell'intero patrimonio lessicale della odierna lingua sarda sono stati trovati appena 7 (sette) vocaboli che derivano direttamente dalla lingua fenicio-punica: ásuma «alaterno», curma «ruta d'Aleppo», grúspinu «crescione», sicchiría «varietà di aneto», sintzurru «equiseto palustre», tzíppiri «rosmarino» (tutti fitonimi), tzingorra «ceriola, anguilla giovane» e inoltre i toponimi Macomer «Città di Merre», Magomadas «Villa Nova» e Mara e Villamar «fattoria». Il che ha fatto giustamente dire al linguista Emidio De Felice che in Sardegna «l'apporto fenicio e cartaginese è insignificante».
Questa importante e sostanziale considerazione di carattere linguistico ne implica un'altra di carattere demografico od antropico generale: l'apporto antropico dell'elemento semitico in Sardegna - prima fenicio e dopo cartaginese - sarà stato molto ridotto in tutti i tempi. Una immigrazione notevole di individui di stirpe fenicia e punica nell’Isola è da escludersi con decisione.
Se tutto questo non fosse vero, non potremmo in alcun modo spiegare la su esposta irrilevanza dell'apporto linguistico fenicio-punico in Sardegna. Del tutto diversa ed opposta invece è stata la successiva posizione di Roma: essa ha "cancellato" quasi completamente la lingua sardiana o protosarda o nuragica - della quale adesso restano soltanto pochi relitti toponimici e pochissimi relitti lessicali - ed ha imposto totalmente la sua lingua latina! (cfr. M. Pittau, Storia dei Sardi Nuragici (Domus de Janas, Selargius 2007, pgg. 302-304).
Oltre a ciò, come è possibile che il Bartoloni – come del resto fanno anche altri suoi colleghi – sorvoli e trascuri completamente il tema degli antichi toponimi sardi, che pure essi non tralasciano mai di citare: Neapolis ed Olbia? Questi toponimi sono chiarissimamente e indubitabilmente greci e sono tanto corposi e significativi nella loro entità storica e dimostrativa, che il trascurarli in quanto tali equivarrebbe a trascurare l’entità storica e dimostrativa di interi sepolcreti, o fenici o punici o greci o latini. Come ho avuto modo di scrivere nell’altra mia opera La Sardegna Nuragica (Cagliari, Edizioni della Torre, 2005, II ediz, pg. 22) «le parole dei linguisti molto spesso parlano e narrano molto più e molto meglio delle cose degli archeologi».
E se è vero che a Neapolis (Santa Maria de Nábui) e ad Olbia sono stati rinvenuti reperti fenici o punici, ciò significa che nel sito sono arrivati anche commercianti o coloni fenici o punici, ma prima di loro vi erano arrivati commercianti o coloni greci, come dimostra appunto il fatto che essi avevano dato il nome greco a quei siti. (E sorvolo sulla storiella di Neapolis interpretata come la traduzione di un precedente toponimo fenicio, storiella di cui nessuno ha mai fornito la benché minima prova!). E lo stesso discorso va fatto per la colonia falisco-romana Feronia, nella costa nord-orientale della Sardegna, proprio di fronte al Lazio. Anche qui, prima saranno arrivati coloni falisco-romani (nel 378/377 a. C.) e soltanto dopo saranno arrivati anche commercianti fenici o punici.
Il toponimo di Sant’Antioco Maladroxa (pg. 36) poi non ha nulla a che fare con la lingua fenicia, dato che deriva chiaramente dal lat. moratoria (probabilmente incrociato con maladiu «malato») col significato di «sito della quarantena» oppure di «lazzaretto».
Il Bartoloni ancora sbaglia ad accettare e ripetere la tesi del Barreca, secondo cui il vocabolo BAB dell’iscrizione latina del tempio di Antas corrisponderebbe al nome nuragico Babay del Sardus Pater (pg. 50): come ho dimostrato nella mia citata opera Storia dei Sardi Nuragici, pg. 121, Babbái non ha nulla di nuragico, mentre è semplicemente una voce infantile che deriva dal lat. parlato babbus, significando «babbino, babbuccio».
Sbaglia inoltre il Bartoloni a parlare ancora di “faretrine” contenenti i pugnaletti votivi (pgg. 106-107): come ho detto nella mia citata opera La Sardegna Nuragica (pg. 16), le “faretre” contenevano le frecce e non i pugnali, le cui custodie invece in italiano si chiamano “guaine” o “foderi”. (Ed aggiungo ora che questi pugnaletti entro i loro foderi costituivano altrettanti ex voto offerti alla divinità per ringraziamento di una pace fatta tra individui o famiglie o tribù; essi volevasno dimostrare che le armi erano state finalmente messe nelle loro custodie).
E infine, perché il Bartoloni scrive continuamente Sulky e Karaly con la y finale? e perché scrive Paniloriga anziche Pani Loriga, che significa «pane a forma di corona»?
Ultima mia obiezione, ma questa di carattere storiografico: perché il Bartoloni ritiene che il famoso primo trattato tra Cartagine e Roma, relativo alle rispettive zone di influenza, che includeva la Sardegna nella zona cartaginese, risalga effettivamente al 509/508 a. C., mentre storici del calibro di Teodoro Mommsen, Ettore Pais ed Andràs Alföldi ritengono che sull’argomento Polibio abbia fatto confusione col trattato del 348/347 a. C.? Io ho già scritto che non si può accettare la tesi che Roma, appena uscita dalla gravissima crisi politica e istituzionale della cacciata della dinastia etrusca dei Tarquini e della sostituzione della monarchia con la repubblica, avesse la capacità e la forza politica per entrare in un accordo paritetico con Cartagine, che era la più grande potenza del Mediterraneo centrale (cfr. M. Pittau, Storia dei Sardi Nuragici cit. pg. 301).

Massimo Pittau

Di prossima pubblicazione nella rivista di Paolo Pillonca «Làcanas».


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