Sembra del tutto evidente che l'epigrafia è una disciplina che ha
come due manici: con uno di questi essa si connette strettamente
all'archeologia, con l'altro si connette alla linguistica storica o
glottologia.
La connessione dell'epigrafia con l'archeologia trova il suo
fondamento essenziale nel fatto che – come mi ha insegnato la prima
volta Giacomo Devoto nell'Università di Firenze – il primo fattore che
una iscrizione offre a un suo interprete è il “supporto fisico” in cui
essa risulta scritta. Nella generalità dei casi avviene che sulle tombe
e sulle lapidi sepolcrali le iscrizioni abbiano un carattere funerario,
con l'indicazione delle generalità dei defunti, della loro età ed
eventualmente del loro curriculum; sui gioieli avviene che
presentino il nome del donatore e/o quello del donatario ed
eventualmente qualche frase di omaggio; nei monumenti pubblici
presentino il nome di magistrati o di personaggi pubblici e/o il
ricordo di importanti eventi storici; negli oggetti di uso comune
presentino il nome del proprietario, ecc. Ne consegue che
l'epigrafista, già dal supporto fisico in cui è tracciata
un'iscrizione, è in grado di intravedere a grandi linee che cosa essa
probabilmente indichi e dica.
Oltre a ciò l'archeologia, in virtù dei contesti archeologici
trovati e interpretati, spesso riesce ad offrire all'epigrafista la
datazione almeno generica di una iscrizione rinvenuta e studiata. Ed
avviene anche il fatto opposto: spesso sono proprio le iscrizioni,
ossia è l'epigrafia quella che dà all'archeologo la più o meno esatta
datazione di un monumento o di un reperto archeologico.
La questione invece della connessione o dei rapporti dell'epigrafia
con la linguistica storica è di più facile evidenza: dopo aver letto o
ricostruito più o meno esattamente una iscrizione antica, l'epigrafista
deve anche affrontare il problema del suo significato generale e dopo
quello del suo significato specifico; deve cioè tentare di prospettare
la sua “traduzione” effettiva.
È evidente e logico che l'intervento preliminare dell'epigrafia costituisce una condizione sine qua non
per l'intervento successivo della linguistica: un linguista non può
affrontare il problema della traduzione effettiva di un'antica
iscrizione se non a patto che abbia fra le mani il testo, più o meno
esatto, quale è stato ricostruito e letto dall'epigrafista.
Ed anche qui avviene pure il fatto opposto: l'intervento preliminare
del linguista può offrire un valido e anche indispensabile aiuto
all'epigrafista perché legga bene e ricostruisca esattamente il testo
originario di una iscrizione.
* * *
Di certo per il motivo che la sua casa editrice non risulta molto
conosciuta, mi era sfuggita del tutto un'opera di epigrafia etrusca,
pubblicata nel 2007. Quando qualche mese fa di quest'anno 2014 ne ebbi
finalmente sentore, non riuscii a trovarla più in commercio, neppure in
quello antiquario. Solamente da qualche settimana ho avuto modo di
averla in prestito da un mio collega di Università. Si tratta
dell'opera dell'archeologo Enrico Benelli, Iscrizioni Etrusche – leggerle e capirle (SACI edizioni di Ancona, pgg. 302).
Dopo averla letta con interesse e con attenzione, da linguista quale
sono, ritengo di poterne formulare questo giudizio generale: l'opera
è rivolta quasi del tutto nella sola direzione dell'archeologia (e
infatti il Benelli è fondamentalmente un archeologo), mentre - a mio
giudizio - si dimostra grandemente difettosa nell'altra direzione
rivolta alla linguistica.
Si presti attenzione a questi fatti facilmente controllabili
nell'opera: I) Il Benelli prende in considerazione per la sua disanima
solamente le iscrizioni brevi e brevissime, mentre trascura quasi del
tutto le iscrizioni lunghe appena due o tre righe. II) Dei testi lunghi
della lingua etrusca egli addirittura si limita a ripetere le brevi
notazioni generali che si trovano in tutti i manuali. III) Egli in
generale procede a dare la “interpretazione generica” di ciascuna delle
iscrizioni esaminate, mentre solamente di poche osa prospettare una
“traduzione” puntuale od effettiva. IV) In alcune traduzioni egli
tralascia di esaminare e di tradurre vocaboli da lui non compresi. V)
Per alcune iscrizioni egli cade in errori di carattere linguistico,
qualcuno vistoso. Ecco alcuni esempi di questi errori:
Nell'iscrizione ET, AT 1.30 – 4s3i (su base di tufo) eca śuϑi Nevtnas Arnϑal neś «questa tomba (è) del defunto Arunte *Neutinio» (TLE 198) non è necessario prevedere un originario neśl perché
è intervenuta la “declinazione di gruppo” (traduco gli antroponimi
etruschi facendo riferimento a quelli corrispondenti latini).
Sembrebbe strano che il Benelli non abbia intravisto il significato
del vocabolo che ricorre in alcune tombe di Tarquinia e del suo
territorio manim come uguale a «monumento», corrispondendo chiaramente al lat. monumentum = monum-entum. Ragion per cui manim arce significa esattamente «fece il monumento (sepolcrale)». E inoltre che egli non abbia intravisto che il monosillabo ma,
che compare in numerosi cippi o lapidi o stele significa appunto «cippo
o lapide o stele funerari» e che probabilmente è l'abbreviazione,
lessicale oppure grafica, del già visto manim «monumento
funerario». Però si comprende bene che il Benelli paga il suo tributo
all'ancora ricorrente ma del tutto infondato pseudoconcetto, secondo
cui «la lingua etrusca non è confrontabile con nessun'altra».
In alcune iscrizioni in cui compare il numerale huϑ il
Benelli lo traduce «sei» anziché «quattro», ma è contraddetto sia dalla
iscrizione ET, Ta 7.81 – 3/2 (su parete di sepolcro che presenta
l'immagine di quattro Caronti) Xarun huϑs «(immagine) del quarto Caronte» (LEGL 96, 136), sia dalla sua evidente corrispondenza col lat. quattuor, sia infine dal nome dell'antica città dell'Attica Hyttēnía, già interpretata come Tetrápolis «quattro città» oppure «città quadrata».
Inversamente il Benelli interpreta e traduce śa «quattro» anziché «sei», che invece corrisponde chiaramente al lat. sex.
È evidente che con questa sua decisione il Benelli mira anche lui ad
escludere la tesi del carattere indoeuropeo pure della lingua etrusca;
senonché gli archeologi e gli epigrafisti non posseggono affatto gli
strumenti necessari e la competenza specifica per sostenere o
contrastare l'appartenenza di una lingua ad una famiglia linguistica
oppure ad un'altra.
Nell'iscrizione di Annibale (ET, Ta 1.107) io interpreto il verbo murce come connesso coi lat. mora «indugio, ritardo», morari «attardarsi, indugiare, trattenersi, dimorare, soggiornare» [finora di origine incerta (DELL, DELI, DEI s. v. mora²) e pertanto probabilmente di origine etrusca] e traduco murce Capue
come «dimorò, soggiornò a Capua» (in ablativo di luogo). (È noto che
Capua, in origine probabilmente osca, era divenuta una città etrusca
fin dal secolo V a. C. e fu conquistata da Annibale nel 212-211 a. C.).
Interpreto invece il verbo tleχe come «fu tolto, fu levato» in quanto connesso con la radice del verbo etrusco tul (Liber II 3, 15; III 22; IV 12, 13, 16; V 5, 9, 12; IX 4, 16, 18, 20; X 2; XI 19) probabilmente «togli!, leva!, solleva!» (imperativo forte sing.) da confrontare col lat. tolle (Trombetti, Olzscha): cisum pute tul «e tre volte solleva il calice»; ei(m) tul var «e non togliere affatto». (ET, AV 0.28 – rec, su vaso) tul «solleva (alla salute)!»; tule probabilmente «solleva!», «prendi!», imperativo debole sing., da confrontare ancora col lat. tolle. (ET, Ve 3.32 – 6: su ansa di vaso) mini tule «sollevami!» (= alla salute!).
Pertanto la mia traduzione dell'intera iscrizione è questa: Felsnas La Leϑes / svalce avil CVI / murce Capue / tleχe Hanipaluscle «La(ris)
Felsinio (figlio) di Letio / visse anni 106 / soggiornò a Capua / (e
ne) fu cacciato dall’esercito di Annibale». A mio giudizio va respinto
il tentativo, che è stato effettuato e che il Benelli ha approvato, di
vedere nella iscrizione il riferimento a qualche episodio bellico
avvenuto nelle vicinanze di Capua: nulla di tutto questo traspare o
semplicemente trapela dall'iscrizione.
La nota iscrizione della gens Claudia, per la quale il
Benelli manifesta titubanze e commette errori, va tradotta esattamente
in questo modo: (ET, Cr 5.2 – 4:, su pilastro) Laris Avle Larisal clenar / sval cn suϑi ceriχunce | apac atic / saniśva ϑui cesu | Clavtieϑurasi «Laris
(e) Aulo figli di Laris da vivi questo sepolcro hanno costruito; i
genitori, e il padre e la madre, (sono) qui deposti - Per la famiglia
Claudia».
Presento adesso e analizzo la traduzione e il commmento che il
Benelli ha fatto della iscrizione della famosa statua di bronzo dell'Arringatore. Ecco il testo esatto dell'iscrizione (CIE 4196; TLE, 651; ET, Pe 3.3 - III-II sec. a. C., su 3 righe):
AULEŚI METELIŚ VE VESIAL CLENŚI
CEN FLEREŚ TECE SANŚL TENINE
TUΘINEŚ ΧISVLICŚ
«per conto di Aule Metelis figlio di Vel questo al dio Tece padre fu donato dalla tuϑina χisvlicś»
Riporto adesso le parole di commento dell'”archeologo” traduttore:
«Il soggetto grammaticale della dedica (espressa al passivo) è il
dimostrativo cen “questo” (forma contratta di cehen) e intende ovviamente la statua; segue il destinatario, regolarmente al genitivo: fler significa “dio, divinità”, mentre tece sanśl deve essere letto come un unico lessema, composto dal teonimo Tece e dall’appellativo sanś, “padre” (che in ambito divino si alterna al termine apa, esprimente anche il “padre” umano) con la desinenza del genitivo applicata solo a quest’ultimo. Segue il verbo al passivo tenine (con l’uscita -ne che esprime un modo finito del passivo, diverso dal perfetto, indicato da -χe) e l’autore della dedica in ablativo. Tuϑina
è un termine che identifica molto probabilmente un qualche tipo di
suddivisione territoriale, forse di carattere amministrativo ecc.».
Ed io commento ed obietto: 1) Perché nella sua traduzione il Benelli salta del tutto il vocabolo vesial? 2) Che cosa in questa iscrizione lo spinge ed autorizza a interpretare il dimostrativo cen (accusativo di ca «questo-a») come forma contratta di cehen? (che invece è una forma enfatica di ca,
avente il significato di «questo qui», al nominativo (si veda
l'iscrizione di San Manno di Perugia). In epigrafia è cosa nota che una
traduzione di un'iscrizione viene infirmata e indebolita da qualunque
intervento si effettui sul testo effettivo conservato. 3) Fino ad ora
gli etruscologi sono riusciti a individuare un solo morfema come tipico
di un verbo passivo (-χe; esempi ziχuχe «è stato disegnato o scritto»; farϑnaχe «è stato generato») ed allora in base a che cosa il Benelli interpreta tenine come un verbo passivo? 4) In etrusco flereś
significa sempre «offerta votiva, ex voto, vittima, statuetta votiva,
statua»», mentre non significa mai «dio, divinità», che invece si dice
sempre ais/eis. 5) Nella nostra iscrizione i vocaboli tece sanśl
risultano chiaramente separati ed allora che cosa spinge e autorizza il
Benelli ad effettuare la loro connessione, creando un nesso che non ha
alcun altro riscontro nel materiale lessicale etrusco conservato? 6)
Egli erra vistosamente a interpretare tece come un nome di divinità, per il fatto che questa è chiamata in sicuri passi di altre iscrizioni Tecum e Tecvm.
E questa differenza non è cosa di poco conto, dato che investe i
rispettivi fonemi finali dei vocaboli. 7) Io ho già avuto modo di
scrivere che “Chi propone di tradurre tece sanśl «del (dio)
Tecum Padre» non si accorge di far entrare illegittimamente una
notazione "sacrale" in un'opera statuaria, che invece è evidentemente,
totalmente ed esclusivamente "profana", nella quale non c'è nessun
elemento, neppure minimo, che faccia riferimento al “sacro” o al
“religioso” (richiamo il riferimento già fatto a Giacomo Devoto). 8)
Del vocabolo tuϑina il Benelli dice solamente qualcosa di molto generico e soprattutto per nulla motivato; del secondo χisvlicś
non dice assolutamente nulla. 9) L'“archeologo” Benelli non ha mai
citato, neppure una sola volta, nessuno dei miei scritti relativi alla
lingua etrusca (13 libri e un centinaio di saggi), evidentemente perché
sapeva già, per “ispirazione divina”, che non vi avrebbe trovato nulla
di scientificamente valido. Ed invece, se avesse consultato almeno il
mio libro Tabula Cortonensis - Lamine di Pirgi e altri testi etruschi tradotti e commentati (Sassari 2000; con qualche lieve correzione odierna), vi avrebbe trovato la traduzione e commento seguenti dell'iscrizione dell'Arringatore, di certo assai più consistente della sua, anche perché ne rispetta totalmente il testo:
AULEŚI METELIŚ VE VESIAL CLENŚI
ad Aulo Metello figlio di Vel (e) di Vesia
CEN FLEREŚ TECE SANŚL TENINE
pone questa statua di Padre il (suo) servizio
TUΘINEŚ ΧISVLICŚ
di patrocinio pubblico
E commento brevemente questa mia traduzione: tece significato
quasi certo «pone», indicativo presente 3ª pers. sing.; da confrontare
con l'iscrizione (ET, Co 3.8 – rec, su statuina bronzea di bambino) flereś tec sanśl cver
«poni (= accetta) l'ex voto come dono del padre (del bambino)»
(supplica alla divinità alla quale era stata offerta la statuina) (TLE 624). tenine probabilmente significa «tenuta, esercizio, svolgimento, servizio» (è il soggetto del verbo tece) [vedi tence, tenϑas(a), tenϑur, teniχunce, tenu]. tuϑineś «del patrocinio», genitivo di tuϑina (REE 55,128; ThLE² 399) «tutela, protezione, patrocinio», da confrontare coi lat. tutela, tueri, che sono di origine incerta e pertanto potrebbero derivare proprio dall’etrusco (DELL, DELI, DICLE). χisvlicś (χisvli-cś) probabilmente «(del) comunitario, generale, pubblico», aggettivo in genitivo articolato, da derivare da χiś «di ogni, di tutto».
Si nota abbastanza facilmente che l’iscrizione ha uno stile ricercato e pure alquanto ampolloso.
Molto probabilmente il personaggio raffigurato nella statua aveva
esercitato il suo patrocinio a favore di una comunità cittadina – nella
zona di Perugia o, più probabilmente, del Trasimeno - e questa lo ha
ricompensato con la grande statua di bronzo. La statua, a grandezza
naturale, rappresenta un uomo maturo, con i capelli pettinati a
ciocche, vestito di una corta toga e di una tunica bordata da una
stretta banda; porta dei calzari. Il suo rango è dimostrato dall'anello
che ha alla mano sinistra. Sul bordo della toga si trova l'iscrizione
incisa su tre righe; la grafia è ben curata. Il tipo di alfabeto
adoperato è quello presente in epoca tardo-etrusca, nell'area di Chiusi
e Cortona. Sia la denominazione sia l’abbigliamento rendono molto
probabile che in realtà si trattasse di un cittadino romano,
che si era assunto il compito di fare da patrono, nelle alte sfere di
Roma, di una comunità cittadina etrusca, la quale lo aveva ricompensato
con la splendida statua di bronzo.
Massimo Pittau, 2014
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