Appellativi italiani
finora privi di etimologia
QUESTIONE DI METODI
I
Riguardo alle proposte di etimologia di appellativi che io presento
in questo mio scritto ed anche a quelle che ho presentato in scritti
precedenti, ritengo opportuno iniziare con una breve, ma - almeno così
mi sembra - importante premessa di carattere metodologico.
Nella lingua italiana - e credo anche in altre ‘lingue di cultura’ -
il verbo ‘dimostrare’ significa «presentare argomentazioni a favore di
una tesi, che costringono l'ascoltatore (o il lettore) a dare il suo assenso».
Il ‘dimostrare’, il ‘dimostrare cogente o costrittivo’, più
caratteristico e più significativo è quello che effettua il matematico:
l'ascoltatore o il lettore, se è sano di mente e se è in buona fede, è costretto
a dare il suo assenso ad una tesi prospettata da un matematico, se le
ragioni che la sostengono sono realmente fondate e inoltre regolarmente
connesse fra loro a catena. Orbene, è del tutto certo che il
"dimostrare alla maniera matematica" (cioè more geometrico), il
‘dimostrare costrittivo’ non esiste per nulla nel modo di operare del
linguista, sia che egli lavori secondo la prospettiva sincronica della
ricerca, sia che lavori secondo la prospettiva diacronica o storica.
Il ‘dimostrare costrittivo’ esiste anche nel campo di quelle scienze della natura, che sono la fisica e la chimica:
in queste è possibile il ‘dimostrare costrittivo’ in virtù
dell'‘esperimento’, quello che "ripete", in condizioni ideali ed
artefatte, ma rigorosamente significative, un certo fenomeno fisico o
chimico tutte le volte che lo scienziato vuole ed inoltre lo ripete in
condizioni ideali di semplicità per gli elementi studiati e di
univocità per i risultati che egli vuole conoscere. Senonché neppure
questo ‘dimostrare costrittivo’ della fisica e della chimica è
possibile nel campo della linguistica, soprattutto di quella rivolta
nella direzione diacronica o storica. Il linguista storico o glottologo
infatti non è assolutamente in grado di far "ripetere" o di richiamare
un certo fenomeno linguistico che risulti documentato per il passato,
né può pertanto sottoporlo ad ‘esperimento’. Il passato è passato e non
può essere richiamato o ripetuto in alcun modo e da nessuno.
Se tutto questo è vero, noi linguisti ci dobbiamo convincere che nel
campo della linguistica storica o glottologia non esiste affatto il
‘dimostrare costrittivo’, non esiste cioè la ‘dimostrazione’ vera e
propria.
Però non c’è alcunché di allarmante e alcunché di mortificante nella
constatazione che nel campo della linguistica storica il vero e proprio
‘dimostrare’ non esiste; perché questa medesima situazione si determina
anche nella storia (da intendersi qui come ‘storiografia’) in generale
e in tutte le discipline storiche in particolare.
Ciò premesso, se il linguista storico non è mai in grado di
presentare ‘dimostrazioni costrittive’, che cosa fa quando prospetta
etimologie, cioè "storie di vocaboli", che pure egli ritiene fornite
dei caratteri della scientificità? Io ritengo che egli prospetti tesi
che non hanno mai il carattere e il valore della ‘certezza’, mentre
hanno solamente il carattere e il valore della ‘probabilità’ o della
‘plausibilità’ o della ‘verosimiglianza’, della maggiore o minore
probabilità o plausibilità o verosimiglianza. (E da questo mio fermo
convincimento deriva il fatto che in tutti i miei scritti di
linguistica storica io faccio largo uso dell’avverbio ‘probabilmente’).
Tutto questo implica in maniera necessaria che l'operare del
glottologo è caratterizzato da una sostanziale nota di "incertezza" o
di "aleatorietà" generale, nella quale il fare obiezioni e il sollevare
dei dubbi è una operazione molto e perfino troppo facile; e spesso le
obiezioni possono essere anche molte.
A queste nostre etimologie più o meno probabili o plausibili o
verosimili, a mio giudizio non si debbono tanto contrapporre difficoltà
od obiezioni, quanto si debbono contrapporre altre etimologie, le quali
abbiano la dote di essere più probabili e più plausibili di quelle
rifiutate. Se una certa mia etimologia sembra poco probabile o poco
verosimile ad un mio collega, ai fini stessi del progresso della nostra
disciplina, prospetti lui una etimologia più probabile e plausibile
della mia e sarò io il primo a rinunziare alla mia e ad accettare la
sua.
Concludendo si deve considerare che tutte le scienze, compresa la
nostra, progrediscono non con le "obiezioni", bensì con le "proposte",
con le proposte anche aleatorie. Il progresso delle scienze - di tutte
le scienze – è infatti possibile solamente a condizione che "si
rischi".
Una volta un mio collega opponeva a me, che avevo proposto una prima ed intera traduzione della famosa ‘Tabula Cortonensis’, qualche anno dopo il suo rinvenimento: «Chi tenta di tradurre la ‘Tabula Cortonensis’ lo fa a suo rischio e pericolo!». Quel mio collega aveva perfetta ragione! Chi traduce lo fa sempre a suo rischio e pericolo;
anche quando si metta a tradurre la più semplice delle iscrizioni
etrusche o perfino la più semplice frase latina oppure greca. Rischia
di sbagliare anche il linguista od il filologo che si metta a tradurre
la più semplice delle favole di Fedro oppure di Esopo. È sufficiente
che intervenga per lui un momento di disattenzione ed ecco che egli
corre il rischio ed il pericolo di incappare in un errore anche grave di interpretazione e di traduzione.
Eppure si ha l'obbligo di rischiare e non soltanto in linguistica
storica, ma anche in una qualsiasi altra disciplina o scienza. Il progresso
in tutte le scienze, di qualsiasi carattere e tipo – ‘esatte’,
naturalistiche, filologiche, storiche, ecc. - è proprio il risultato
del rischio che ha corso uno scienziato, anzi dei rischi che hanno
corso in generale tutti gli scienziati precedenti. I loro errori,
effetto del loro rischiare, in realtà sono dappertutto il prezzo che si
paga al progresso delle scienze, di una qualsiasi delle scienze. Questo
principio è entrato anche nella saggezza popolare, la quale ricorda che
«Chi non risica non rosica».
Gli scienziati che non rischiano mai nel loro sentenziare non sono
propriamente "scienziati", ma sono semplicemente "ripetitori" delle
scoperte altrui. Io ho già avuto modo di scrivere che anche in
linguistica «è molto meglio una ipotesi azzardata, che nessuna ipotesi;
infatti, da una ipotesi azzardata - che alla fine potrebbe anche
risultare errata - prospettata da un linguista, potrà in seguito
scaturire una ipotesi migliore e addirittura quella vincente,
prospettata da un linguista successivo». Questo - ho detto - è l'esatto
significato e il profondo valore della nota tesi di G. W. F. Hegel
della "positività dell'errore".
II
La recente scomparsa del linguista svizzero Max Pfister, promotore del grandioso «Lessico Etimologico Italiano» (sigla LEI),
ha rinnovato in me un forte rammarico, quello che avevo provato alla
prima comparsa dell’opera: nonostante le apparenze il LEI è un’opera
gravemente “monca”, posso dire almeno “dimidiata” o “dimezzata”. Nelle
apparenze sembra che il LEI contenga tutto lo scibile relativo alla
lingua italiana e ai suoi dialetti ed invece, a mio giudizio, esso è
privo di almeno la metà del materiale lessicale e linguistico che
avrebbe dovuto contenere. Ecco in sintesi l’elenco delle numerose
lacune che si trovano nel LEI:
1°) Manca un intero millennio di storia politica, culturale e
linguistica della Nazione italiana, quella concretizzata con la storia
politica, culturale e linguistica degli Etruschi, di un popolo cioè che
stava agli stessi livelli del popolo greco e di quello romano. Anzi gli
Etruschi hanno tenuto a battesimo i Romani, insegnando ad essi a
scrivere e addirittura fondando Roma e dandole un nome etrusco (si veda
il mio studio “Roma fondata dagli Etruschi”).
2°) Nel noto commentatore di Virgilio, il grammatico Servio (ad Aen., XI 567), troviamo citata una frase di Catone: «L’Italia era stata quasi tutta sotto il dominio degli Etruschi» (In Tuscorum iure paene omnis Italia fuerat).
Inoltre Tito Livio (I 2; V 33) parla della potenza, della ricchezza e
della fama degli Etruschi, in terra e in mare, dalle Alpi allo stretto
di Messina.
In linea di fatto, al di fuori del territorio della originaria
Etruria, che si estendeva dalla costa del Mar Tirreno settentrionale ai
confini dei due fiumi Arno e Tevere, numerosi dati documentari,
archeologici, epigrafici e storici assicurano l’espansione del loro
dominio a sud fino al Latium vetus (Roma, Terracina) e alla Campania (Capua), a nord fino all’Emilia (Felsina/Bologna, Modena), al Veneto (Adria, Spina), fino a Mantova e all’Alto Adige (Laives, Varna, Velturno, Vipiteno).
Quei dati inoltre dimostrano la penetrazione che gli Etruschi fecero
anche al di là del fiume Po, fin nel cuore delle Alpi, di certo alla
ricerca di giacimenti di minerali, soprattutto del ferro, e di nuove
strade per i loro commerci.
3°) La documentazione epigrafica poi va molto al di là di questi già
vasti confini di espansione politica, dato che iscrizioni etrusche sono
state rinvenute nel sud anche a Pontecagnano al confine estremo della
Campania e nel nord a Piacenza e in Liguria. E poi ulteriormente fuori
dell’Italia, a Marsiglia, in Corsica e perfino alcune in Sardegna.
4°) A proposito delle iscrizioni etrusche, va ricordato e tenuto ben
presente il fatto che sono stati gli Etruschi a introdurre la scrittura
in Italia (con eccezione della Magna Grecia e della Sicilia),
insegnandola ai Romani, agli Umbri, ai Veneti, ai Camuni e ai Reti.
Si deve tenere ben presente che degli Etruschi ci sono state
conservate circa 12 mila iscrizioni, che non si può negare che sia una
somma quasi stupefacente di vocaboli, di gran lunga superiore a quella
di tutte le altre lingue frammentarie antiche, che sono assai lungi dal
presentare una documentazione così ampia e anche così varia.
5°) Nel LEI sono ignorate del tutto le tre opere di Silvio Pieri,
portento di accuratezza di documentazione e di prudente analisi
linguistica, che sono: TVSL Pieri S., Toponomastica delle Valli del Serchio e della Lima, ‘Accademia Lucchese di Scienze Lettere e Arti’ (nuova edizione Lucca 2008); TVA Pieri S., Toponomastica della valle dell'Arno (in Atti della ‘R. Accademia dei Lincei’, appendice al vol. XXVII, 1918, Roma (1919); TTM Pieri S., Toponomastica della Toscana meridionale (valli della Fiora, dell'Ombrone, della Cècina e fiumi minori) e dell'Arcipelago toscano, Siena 1969 (edizione postuma ‘Accademia Senese degli Intronati’).
Ebbene il Pieri fa esplicito riferimento a toponimi toscani che sono
di probabile origine etrusca e che spesso corrispondono ad altrettanti
appellativi dialettali toscani, ma invece il LEI ha sorvolato su tutto
questo.
6°) Il LEI ha sorvolato sul notissimo studio di A. Ernout, Les éléments étrusques du vocabulaire latin (in ‘Bull. de la Soc. de Ling.’, XXX, 1930, pg. 82 sgg., poi nel vol. Philologica, I, Paris 1946, pgg. 21-51 (EPhIL).
7°) Il LEI ha sorvolato su quel gioiello di dizionario etimologico che è il DELL di Ernout A. - Meillet A., Dictionnaire Étymologique de la Langue Latine
(IV édit., IV tirage, Paris 1985), nel quale i due illustri autori
hanno dato ampio spazio ai vocaboli di origine sicuramente oppure
probabilmente etrusca.
8°) Ha ignorato del tutto gli studi del sottoscritto, consistenti in
ben 18 libri relativi alla lingua etrusca e in un centinaio di studi.
Ecco dunque spiegate le ragioni del mio giudizio critico dell’opera
di Max Pfister. Sicuramente a lui è successo di aver pagato un pesante
tributo alle ridicole affermazioni, correnti a livello popolare e anche
più su, secondo cui “La lingua etrusca è tutta un mistero”, “La Lingua
etrusca non è comparabile con nessun’altra”!
Ho scorso le prime pagine del I volume del LEI fino all’inizio della
lettera C, per sapere se e in quale misura abbia tenuto conto della
lingua etrusca. Ebbene, con mia grande sorpresa ho costatato che
l’aggettivo ‘etrusco’ vi compare in 792 pagine solamente quattro volte
....
Insomma, a mio giudizio il ‘Lessico Etimologico Italiano’
costituisce quasi un disastro editoriale: dieci secoli di storia
politica, culturale e linguistica dell’Italia semplicemente “accennati”
....!
III
Si noti bene: secondo una tesi comunemente nota, la consonante iniziale /f-/ degli appellativi seguenti è un indizio della loro probabile origine etrusca.
Faccio poi notare che troppe volte gli etimologi sono soliti
definire di “origine germanica oppure celtica” vocaboli che non
riescono a spiegare in altro modo. E invece spesso sono proprio
vocaboli di origine etrusca.
Gli Appellativi
avallo «garanzia di pagamento di un titolo cambiario altrui», appellativo finora di etimologia incerta (DELI², Etim), che probabilmente deriva dall’etrusco AVALE (ThLE² 10) ed inoltre è da connettere col toponimo toscano Avaglio (TVA 365) (LICE).
baro «truffatore», «chi truffa al gioco, specialmente delle carte» (1764, G. Baretti: baro da carte), esteso «imbroglione», probabilmente deriva dal lat. baro,-aronis «balordo» (nella forma del nominativo o del vocativo) (finora di origine ignota; DELI², Etim) ma che probabilmente deriva dall’etrusco VARUNI (ThLE).
boccia scherzoso ‘capo, testa’ (1962, Batt., ma più diffuso il dim. boccino nella locuzione girare il boccino, rompere il boccino: 1941, Voc. Acc.; ‘vaso tondeggiante’ (1499, Ricettario Fiorentino; frequenti ed antecedenti le attestazioni in lat. mediev.: boza, buza a Venezia dal 1270, buzia in Istria nel 1371, bucia ad Aquileia nel XIV sec., bocia
a Maniago nel 1380: Sella Ven.), ‘palla di legno duro o di materiale
sintetico usata in alcuni giochi’ (1709, Somavera: “boccia di giuocare
al maglio”); dim. Boccetta; bocciare «colpire con la boccia», «respingere una proposta amorosa», «essere respinto a scuola»; finora di etimologia discussa (DELI², Etim). Sono da richiamare i toponimi Bócina (TVA 23), Boccena, Bucéna, Buchena, Bucina.
caloscia, galoscia «zoccolo dalla spessa suola di legno» (finora di etimologia incerta; DELI², Etim) probabilmente è da confrontare col gentilizio etr. CALUŚN(-AL) (ThLE² 72) e pure coi toponimi toscani Calósina (TVA 25), Calosina/e (TTM 14). Erano famosi i sandália tyrrheniká «sandali tirreni (o etruschi)» (di lusso) (Esichio, G. Polluce, Fozio).
camino, cammino «canale di tiraggio del fuoco» e «strada, via» - Fra
i relitti della lingua etrusca è abbastanza frequente il gentilizio
masch. (in genitivo patronimico fossilizzato) CAMNAS, femm. CAMNAI,
CAMNEI, suo genitivo CAMNAL (ThLE²), al quale corrisponde il gentilizio lat. Camnius (RNG).
Come capita per altri numerosi vocaboli etruschi, è facile ipotizzare
una forma originaria *CAMINA, la quale corrisponderebbe all'altro
gentilizio lat. Caminius (RNG) e inoltre all'appellat. lat. camīnus «camino, focolare, forno, fornace, fucina». Questo viene comunemente riportato al greco káminos «forno, fucina», il quale però è sinora di origine ignota (DEI, DELL, DELG, DELI²). Sembrerà strano, ma è proprio così: l'appellativo camino «focolare, forno, fucina» è stato fino ad ora ritenuto del tutto estraneo all'altro appellativo ital. cammino «strada, via» (e al relativo verbo camminare), per il quale invece è stata finora prospettata una origine celtica o gallica, senza però alcuna motivazione plausibile (DEI, DELI², AEI, Etim). Eppure è un fatto che da una parte nella conservativa lingua sarda caminu, camminu significa «strada» e dall'altra nella lingua italiana è attestata anche la forma cammino «focolare, forno, fucina». Si deve tenere presente che nei forni o fornaci il camino
come pertugio o foro per il tiraggio del fuoco è un accorgimento
essenziale, che va interpretato anche come ‘pertugio o foro dove passa
il fumo’. E ne consegue che in origine caminare significava
propriamente ‘passare del fuoco e del fumo nel camino’ e dopo come
‘passare, camminare in genere. La forma più antica (priva dell'aferesi)
dell'appellativo etrusco che stiamo studiando è KAMUNEIS (secolo VI a.
C.; TLE 478; ThLE²), alla quale io connetto senz'altro il toponimo alpino Val Camònica,
che interpreto e spiego come «valle dei forni o delle fornaci». È un
fatto comunemente noto che gli Etruschi si infilarono nelle più
profonde valli alpine, per la ragione che miravano alla ricerca e allo
sfruttamento di giacimenti di minerali, soprattutto del ferro, il quale
tanta importanza ha avuto nello sviluppo e nella ricchezza della loro
civiltà. Ed è importante precisare che la ricerca e la scoperta di
giacimenti di minerali è immensamente più facile nelle valli delle
montagne, in virtù delle loro pareti, scarpate, dirupi e frane, che
mostrano le varie stratificazioni, che non nelle pianure.
casto-a «puro, continente, sobrio-a», specialmente in
senso sessuale. È dato come di origine indeuropea, ma con connessioni
poco convincenti (DELI², Etim). Esiste anche in etrusco con significati del tutto chiari: CASΘI(-AL-Θ) «in castità, in purezza, castamente, puramente» (ThLE² 77) Inoltre è da confrontare col toponimo toscano Cástica (TVSL 200).
ciberna vedi giberna.
classe deriva dal lat. classis «gruppo, rango, flotta, esercito». La sua spiegazione etimologica era stata già intravista e indicata da Quintiliano (1.6.33): classis a calando. Il verbo lat. kalare, calare «chiamare, proclamare, annunziare, convocare» (Varr., Lat. 6.27; Gell. 15.27.1) all’inizio era di ambito ed uso religioso e così pure il derivato appellativo kalator, calator,-oris «banditore, araldo», «inserviente» del pontefice e del flamine (CIL VI 32445). In seguito l’appellativo derivato classis
passò a indicare: 1ª) una delle 5 ripartizioni dei cittadini per censo
istituite a Roma da Servio Tullio; 2ª) la flotta; 3ª) l’equipaggio
della flotta: Paolo-Festo (251, 20) dice: Vetustius enim fuit multitudinem hominum quam navium classem appellant; 4ª) le truppe dell’esercito (Verg. Aen 7.716): 5ª) l’esercito: classes cipleatas [= truppe armate di scudo] antiqui dixerunt, quas nunc exercitus vocamus (....) classis procincta exercitus instructus
[= esercito schierato] (Paolo-Festo, 48, 22¸49, 10; 6ª) la classe, il
gruppo, il rango.- Ma a me sembra evidente che in origine classis
significava propriamente «chiamata», «chiamata militare per servire la
flotta o l’esercito», significava cioè «leva militare».- L’origine
etrusca del verbo lat. kalare, calare e del derivato classis
è indiziata sia dal fondatore delle ripartizioni dei cittadini per
censo, il re etrusco di Roma Servio Tullio, sia dalla alternanza delle
lettere K/C (la prima più antica). Ma soprattutto è dimostrata dai
seguenti relitti della lingua etrusca: CAL (Liber linteus,
III 14; X 14) probabilmente «chiama!, invoca!, proclama!, convoca!»,
imperativo forte al sing., da connettere con gli etr. KALATURUS,
CALATURUS «banditore, araldo» (ThLE).
console «massimo magistrato binario dello stato romano», consigliare, consolare, consultare, derivano dal lat. consul da intendersi come cum + sul, cioè cum + solium, da cum + sedēre, cioè «compagno di soglio o seggio» e quindi «collega». I due consoli infatti “sedevano” insieme nel consilium (e sulla sella curulis) (ancora da cum + sedēre) e ‘consultavano’ il Senato (Senatum consulĕre). Ed ovviamente anche consilium «consiglio va interpretato come cum + solium e quindi come «consesso». L’altro verbo che ne è derivato lat. consulari «consolare, confortare» va spiegato come «stare vicino al collega o all’amico che soffre». Da confrontare gli arcaici lat. consol, cosol (CIL I², 7, 8; ThLL III 562, 27 sgg.; DELL 138) e inoltre con l’etr. CUSUL (ThLE²).
danza, danzare. Il sostantivo ital. danza ed il verbo danzare finora sono praticamente privi di etimologia. Di solito viene richiamato il francese medioevale danser, ma nessun linguista è riuscito ad andare oltre con qualche proposta esaustiva e convincente (DELI², Etim). A mio giudizio gli ital. danza e danzare
derivano dalla lingua etrusca per due diverse ragioni: in primo luogo
perché possediamo le raffigurazioni pittoriche di danzatori dipinti
soprattutto nella famosa “tomba del triclinio” di Tarquinia, in secondo
luogo perché abbiamo conferme linguistiche dateci da numerosi vocaboli
etruschi. Che sono i seguenti: TAMSNI «Tamsinia», gentilizio femm. di
TAMSNIE(-S). TAMSNIES «(di) Tamsin(i)o», gentilizio masch. (in
genitivo) da confrontare con quello lat. Tamsin(i)us (RNG) che richiama chiaramente la radice *tams- *tans- = «danza,-are» (è ben conosciuta l’alternanza etrusco-latina T/d; LLE norma 4). TANASAR «danzatori, istrioni, pantomimi, attori» = lat. histr(i)ones, significato assicurato dall’iscrizione bilingue TLE
541; -R è la desinenza del plur.- APAS TANASAR / TANASAR «attori di
Babbo / attori» (iscrizioni dipinte accanto alle figure di due uomini
piangenti nella ‘Tomba degli Auguri’) (TLE 82, 83). Gli histriones venivano assoldati sia per compiangere il morto, sia per dar luogo a mimi funerari. TANŚINA
«Tansin(i)o», gentilizio masch., variante di TAMSNIE(-S). TANSINEI
«Tansinia», femm. di TANŚINA. ΘANASA «danzatore, istrione, pantomimo,
attore». (ThLE 416; bilingue su tegola) AΘ TREPI ΘANASA \ AR TREBI histrio (glossa latino-etrusca) «Ar(runte) Trebio istrione» (dunque etr. ΘANASA = lat. histrio,-onis, che deriva anch'esso dall'etrusco) (in etrusco l’alternanza T/Θ è cosa ben conosciuta (LLE norma 3). ΘANS (Liber linteus,
III 22; IV 16; IX 4, 20) «danzatore, istrione, attore», sing. di
ΘANSUR. ΘANSE (su fronte di sepolcro) «Tansio», nome individuale masch.
di liberti, da confrontare col gentilizio lat. Thansius (RNG), col significato originario di «danzatore, istrione, attore» (cognomen). ΘANSEI «Tansia», femm. di ΘANSE. ΘANSES «di Tansio», genitivo di ΘANSE «Tansio». ΘANSESCA (ΘANSES-CA) «quello di Tansio». (TLE 215; marchio di fabbrica su askos)
ΘANSESCA NUMNAL ACIL «opera quella di Tansio (figlio o servo) di
Numenia». ΘANSI «Tansio», variante di ΘANSE. (Su ossario) ΘANSI PETRUS
LAVTNI «Tansio liberto di Petrone»; (su tegola funeraria) ΘANSI ZUXNIS
«Tansio (liberto) di Succonio». ΘANSIAL «di Tansia», genitivo di
*ΘANSEI «Tansia». ΘANSINAL «di Tansinia», genitivo di ΘANSINEI.
ΘANSINAS «(di) Tansin(i)o», gentilizio masch. (in genitivo), da
confrontare con quello lat. Thamsin(i)us (RNG). (Su
fronte di sepolcro) TA SUΘI AVLES ΘANSINAS «questa tomba (è) di Aulo
Tansin(i)o». ΘANSINEI «Tansinia», femm. del gentilizio ΘANSINA(-S)
ΘANSIS «di Tansio», genitivo di ΘANSE. ΘANSISA «quello-a
(figlio-a) di Tansia», matronimico pronominale del femm. del gentilizio
ΘANSE. ΘANSUR (Liber linteus, II 3, 16; IV 3; V 5, 12)
«danzanti, istrioni, attori», plur. di ΘANS. ΘANZINAL «di Tansinia»,
genitivo di ΘANZINEI. ΘANZINEI «Tansinia», gentilizio femm., variante
di ΘANSINEI. È da osservare il nesso NZ, che si ritrova nell’ital. danza/danzare, diversamente che nell’antico francese danser.
dollaro, tallero - Il nome delle monete ‘dollaro’ e ‘tallero’,
diffuse in tutto il mondo, è finora privo di etimologia, dato che
quelle correnti sono del tutto prive di valore scientifico e sembrano
uscite dalle mani di semplici dilettanti. Eccone due spiegazioni o,
meglio, pseudo-spiegazioni: «Grossa moneta d'argento che ebbe corso,
con valori variabili, in alcuni stati della Germania e in gran parte
dell'Europa, dalla fine del sec. XV al XIX. - s. m. ‘grossa moneta
d'argento coniata per la prima volta da Sigismondo d'Austria nel 1484,
poi diffusa in tutta l'Europa e in Italia con diverso valore’ (per
l'epoca ant.: talero, 1565, Olao Magno, cit. da O' Connor 211 n. 3, e
tallari, tallerini nei Gridari milanesi del 1646-47, riportati da Zacc.
Ra. 147, 148; per i tempi più recenti: tallero, 1801, Stampa milan.)».
«Ted. T(h)aler, perché orig. (1519) riferito a Joachimst(h)al, la
‘valle di S. Gioacchino’, in Boemia, dove furono coniati i primi
joachimstaler, sfruttando le miniere argentifere locali.- A mio avviso
invece ‘dollaro’ e ‘tallero’ derivano dall’appellativo etrusco TULAR (ThLE),
il quale significa «terra, terreno, cippo di terreno o confinario».
Nella terminologia della numismatica TULAR «cippo» avrà preso il
significato di “moneta prima, moneta di base, moneta principale”.- Sul
piano fonetico io ritengo che in realtà TULAR si pronunziasse *TULLAR,
in ciò autorizzato da questi altri esempi etruschi: APULU, *APULLU
«Apollo», CELA (*KELLA) «cella mortuaria», RAPALE/«Rapallo».- Ma a
questo proposito la prova migliore è data dalla stretta connessione e
derivazione dei lat. tellus,- ūris «terra, Madre Terra» e suo marito Tellūrus appunto dall’etr. TULAR.-
Ciò detto, considerato che la corrispondenza delle vocali etrusche tra
loro e inoltre con quelle latine è – come noto - molto libera e varia (LICE norme 1,2), si può concludere con tranquillità che pure la corrispondenza fra TULAR/*TULLAR con ‘dollaro’ e ‘tallero’
è del tutto verosimile e plausibile.- Venendo al piano storico pure
l’entrata e la presenza dell’appellativo etr. TULAR/*TULLAR nell’area
geografica ‘germanica’ è del tutto giustificabile. È noto che quando
nel secolo VI a. C. gli Etruschi dilagarono nella pianura padana, si
infilarono anche nelle vallate alpine sia per la ricerca di nuovi
giacimenti di minerali, sia per la conquista di nuove vie per i loro
commerci. Essi pertanto arrivarono nel cuore dell’area germanica, cioè
a Vipiteno nell’Alto Adige, a Belluno, Chiavenna, Marcheno, Ginevra, nel Cantone di Uri, e probabilmente anche a Berna, (cfr. Verna TTM), Carena, Locarno, Lugano (etr. LUCANE, LAUCANE).- Lo stesso nome antico della Svizzera, Helvetia, deriva dall’etr. HELVE, gentilizio masch. da confrontare con quello lat. Helvius (RNG) e inoltre con l’aggettivo lat. helvus «giallastro, di colore isabellino», e infine col lat. Helvetia
(da cui ‘Schveiz’, ‘Svizzera’) come “terra degli abitanti dal colore
biondo dei capelli”.- Dunque è del tutto fondata la tesi della presenza
degli Etruschi nella parte centrale dell’‘area germanica’ e quindi
dell‘entrata del loro vocabolo TULAR/*TULLAR “moneta di base” nelle
odierne lingue germaniche.- E tutto ciò è una prova abbastanza chiara
della valenza della civiltà degli Etruschi: molto probabilmente essi
hanno anche dato il nome alle due più importanti monete che attualmente
dominano tutta l’economia dell’intero nostro pianeta.
duello «combattimento a due», deriva dal lat. duellum, bellum «combattimento, guerra» (finora di origine ignota; DELI²), che è da connettere col gentilizio masch. lat. Duellius (RNG 70) e da confrontare com quello etr. ΘVEΘLIES, ΘVETLIES, ΘVETELIES, TVEΘELIES «(di) Duellio», gentilizio masch. in genitivo (LEGL 78); nel lat. duellum è intervenuta la paretimologia col numerale duo «due».
falesia «costa con ripide pareti rocciose a strapiombo
sul mare», probabilmente è da confrontare col gentilizio femm. etr.
FALASIA(-AL) e inoltre con Falesia (ant. città dell'Etruria presso Piombino; Itin. Marit. 501) (TTM 68) e infine col toponimo lat. Falerii,-orum (alternanza a/e; LICE norma 1) (TLE 922; DETR; TIOE 85; DICLE 81). Consonante iniziale F- indizio dell’origine etrusca (LICE norma 21). A me la spiegazione prospettata dai DELI² ed Etim, col solito inutile rimando a supposte basi “germaniche”, non sembra da accettare.
feltro «lana e peli agglutinati e pressati» e
«cappello di feltro» (la cui origine ‘germanica’ corrente è da
respingersi perché urta con gravi difficoltà fonetiche e cronologiche),
che io invece prospetto derivare dall’etrusco col significato di
«cappello di feltro, pileo sacerdotale» (che era appunto di ‘feltro’) (Liber linteus, VII 2). Consonante iniziale F- indizio dell’origine etrusca (LICE norma 21). Vedi toponimo Feltre.
giberna, ciberna «astuccio a tasca di cuoio o tela, per custodirvi cartucce»; francese giberne
(1752), che alcuni ritengono derivare dall'italiano, ma nell'uno, come
nell'altro caso si risale poi ad un'antica forma del tardo latino (sec.
IV) zaberna(m) «sacca, tasca», che compare nell'editto di
Diocleziano e però lascia inspiegato lo iato della documentazione e
comunque è privo di sicuri confronti (DELI², Etim), a mio avviso è da confrontare col toponimo toscano Cibirna (TTM 415), che forse a sua volta è da confrontare col gentilizio etrusco CIPIRU (ThLE² 91) (?).
mannaggia! L’esclamazione impropria italiana mannaggia! ha
un valore negativo e attualmente indica “stizza” e “dispetto”
dell’interlocutore, mentre in origine costituiva una imprecazione, come
fa intendere chiaramente la spiegazione che ne danno tutti i dizionari
italiani: “Che male ne aggia!, Che male ne tragga!”. Questa
spiegazione, anche se universalmente accettata dai linguisti, va
respinta, dato che non è altro che una paretimologia o ‘etimologia
popolare’. Invece la spiegazione che ne prospetto oggi è molto più
semplice e lineare e si fonda sul fatto che nei dialetti siciliano e
calabrese essa compare come mannaja. A mio avviso, pertanto, mannaggia! deriva dall’appellativo ital. mannaia, che era la grande scure adoperata dal boia per la decapitazione dei condannati a morte e che deriva dal lat. manuaria (REW
5332) «scure alla mano». In origine pertanto la esclamazione
significava “che tu vada alla mannaia, alla decapitazione”. Ed infatti essere sotto la mannaia significava “essere in una situazione molto pericolosa” (DELI²). D’altra parte non è improbabile che manuaria significasse propriamente «scure che taglia la mano» per la legge del taglione, che era prevista dalla VIII delle XII Tavole dei Romani antichi. Nel modo similare dell’aggettivo sostantivato lat. dextrale, che è passato in alcune lingue neolatine col significato di «ascia, scure» (REW) e cioè col significato originario di «scure» che taglia la mano destra». È infine probabile che mannaggia! sia di origine napoletana. Esiste anche un’altra variante della esclamazione: malannaggia, malannaggio, la quale è chiaramente derivata dall’incrocio di malanno + mannaggia.
marito - Già nell'Ottocento il linguista tedesco Wilhelm Deecke aveva prospettato l'ipotesi che il nome del semidio etrusco MARIS, MARIŚ (genitivo MARISL, MARIŚL) (ThLE²), potesse corrispondere a quello greco Érhōs
«Amore, Cupido». Ed infatti anch'esso compare in alcuni specchi
etruschi come un “bambino” o “adolescente”. La qual cosa viene
confermata da due aggettivi da cui è seguito (ET, Cl S.8; Vs S.14) MARIŚ HUSRNANA «Maris
bambino» (da confrontare con HUSIUR, HUŚUR «bambini, ragazzi»); MARIŚ
HALNA «Maris poppante ?» (forse da confrontare col lat. alumnus ?). In qualche specchio la figura di MARIS si ripete, proprio come quella dei greci Érhōtes «Amorini». Tutto ciò premesso, a mio avviso MARIS è da confrontare coi lat. mas, maris «maschio» e maritus «marito», finora entrambi di origine ignota (DELL, DELI²) e quindi – come capita spesso – probabilmente etrusca. E con ciò abbiamo finalmente trovato l'etimologia dei lat. mas, maris e maritus, cioè dall'etrusco MAR. La qual cosa è confermata dalle tre seguenti iscrizioni etrusche: (ET, Cl 1.338 - rec; su coperchio di ossario) VL VILIA VL MAR PUR/Θ «Velia Vilia (figlia) di Vel, il marito vate (pose)»; (ET, Cl 1. 1235 - rec; su coperchio di ossario) LΘ ANIU ARNΘAL MAR «Lart Anione marito di Arruntia»; (ThLE²
256) V MAR LEΘAL «V(el) marito di Letia». E adesso è legittimo
invertire la direzione della ricerca etimologica, affermando che dunque
con grande probabilità MARIS in origine significava «maschio».
orma - L’appellativo ital. ‘orma, traccia’ finora risulta di origine ignota (DELI², Etim). Esso è da confrontare col sardo ormina, olmina, omrina, urmina, irmina, immina «orma,
vestigio, traccia di selvaggina», il quale quasi certamente è un
relitto protosardo. Ed entrambi sono da confrontare con l’omoradicale
toponimo toscano Ormenano (TVA 35). La terminazione -ina, presente in altri relitti protosardi (esempi: cutina «pietra, roccia piatta e lunga, macigno, ammasso di rocce»; macarina, maccherina, magarina «nicchiola per ripostiglio sul muro di una capanna o d'una casa»; rusina, rosina «pioggerella, acquerugiola», ecc.) è l’elemento che si oppone fortemente alla tesi di Max Leopold Wagner (DES
II 194) secondo cui l’appellativo sardo deriverebbe dal corrispondente
italiano ‘orma’ (che d’altronde in Sardegna esiste pure).-
Dall’appellativo sardo sono derivati i verbi orminare, ormizare, urminare «seguire le orme,rintracciare», e inoltre addromare «seguire l’orma, fiutare la selvaggina, cercare insidiosamente» (Dorgali, Oliena, Orgosolo in Barbagia), da ad + orma,-ina dal quale a sua volta è derivato il deverbale masch. addromu «orma, traccia, odore che lascia la selvaggina» (NVLS).
pernacchia/o - Il lat. perna
«coscia o gamba dell’uomo», «prosciutto del maiale» ha avuto una
larghissima diffusione nelle lingue neolatine, tanto è vero che è
entrato e rimasto in tutte (REW 6418). Particolarmente notevole
è l’ampiezza del suo sviluppo semantico nella lingua sarda, nella sua
propria caratteristica di lingua popolare, importata e diffusa
nell’Isola da militari romani, in genere ex-contadini. Ecco alcuni dei
numerosi e vari significati che ha assunto in sardo: perra «coscia, gamba, chiappa, natica», «metà», «mezzaporta»; perra ‘e culu «chiappa, natica» (plur.) perras «cosce»; perra-perra «per metà»; frades de perra «gemelli»; una perra ‘e janna «un battente di porta»; isperrare, sperrai «spacare in due», isperrache «(frutto) spiccace»; imperriare, imperriái «stare a cavallo di un filare o di una riga», «scavalcare», «inciampare»; perricare «riuscire a giungere, arrampicarsi», «contendere, contrastare» (log., camp.) (NVLS). Il lat. perna viene accostato al greco ptérna «coscia» e viene considerato come probabilmente indeuropeo; DELL, DELG). Ed esiste pure fra i relitti della lingua etrusca, ma come gentilizio: PERNA, PERNAL, PERNEI (ThLE² pag. 305.). Ciò premesso dico che l’appellativo italiano, di forte significato volgare e triviale, pernacchia, pernacchio deriva per l’appunto dal lat. perna
«coscia». Il significato comunemente attribuito dai vocabolari a questo
appellativo è suppergiù questo: «Suono volgare che si produce emettendo
un forte soffio d’aria tra le labbra serrate, talvolta con la lingua
interposta, più spesso premendo la bocca col dorso o col palmo della
mano, in segno di disprezzo o di derisione» (Vocabolario Treccani). E il Grande Dizionario della Lingua Italiana di S. Battaglia aggiunge «in modo da produrre un rumore simile a quello della scorreggia». Orbene - osservo e concludo - la scorreggia si
fa con la stretta delle “cosce” o delle “chiappe” e dunque possiamo
concludere che la pernacchia si fa con la stretta delle labbra in
maniera simile a come si fa la scorreggia con la stretta delle “cosce”
o delle “chiappe”. E non è finita: tutti i suonatori di trombe suonano
il loro strumento producendo con le labbra una serie di “pernacchiette”
.... Risulta pertanto dimostrato che il triviale appellativo pernacchia/o deriva dal lat. perna «coscia» o, meglio, da un suo derivato *pernacŭla/um. Invece tutti gli odierni vocabolari italiani fanno derivare il nostro appellativo dal lat. verna «schiavo nato in casa» e precisamente da vernacŭlus «di
casa, domestico-a». Senonché questa derivazione implica parecchie
difficoltà, sia di carattere fonetico sia di carattere semantico, per
cui va eliminata dai nostri vocabolari.
rantolo, rantolare - L’appellativo italiano ràntolo «respiro
ansimante proprio degli agonizzanti», «rumore polmonare prodotto dal
passaggio dell'aria nelle vie respiratorie quando in esse è presente un
essudato», non è stato fortunato per nulla nella storia delle ricerche,
quelle che compaiono nei vocabolari etimologici. Qualcuno di questi
infatti lo rimanda al “fondo germanico” (si fa spesso così, quando non
si riesce a trovare una etimologia almeno ‘probabile’); qualcuno lo
presenta come “onomatopeico” (ma è troppo poco dato che in moltissimi
altri vocaboli di tutte le lingue è di certo presente anche una
generica componente onomatopeica); qualcun altro si limita ad affermare
che è di “area toscana e settentrionale” (ancora troppo poco!); ed
altri due vocabolari etimologici non lo citano neppure. Due soli
vocabolari italiani, Il nuovo etimologico di M. Cortelazzo e M. A. Cortelazzo, e l’Etimologico
di Alberto Nocentini affrontano veramente il problema. Il primo scrive
testualmente «Vc. onom. della famiglia di rant- (C. Merlo in RIL LXXXVI
[1953] 417 con numerosi riscontri nei più vari dial. it.; che l'it.
ant. ranto sia dev. di *rantare è meno plausibile di una falsa
riduzione da rantolo sentito come dim.). Per Alessio Nuove Post.
“presuppone un rant- che sembra ben continuare il lat. ramites
‘bronchi’ (Plaut. Mer. 138, Poen. 540) ... La voce è di fonetica
settentrionale (per la sincope) e sarà giunta in Toscana dall'Emilia
(rant är, rántul)”. L'ipotesi del Regula (Om. Rosetti 742) di un
incrocio fra brontolare e la base onom. ra(n)k- è ancora più
discutibile», ma restando gli autori sostanzialmente scettici. Il
secondo rifacendosi al settentrionale maràntola «incubo notturno», ma sostenendo la sua tesi con una lunga e complicatissima spiegazione. Secondo il mio parere l’appellativo ràntolo (dal quale io faccio derivare il verbo rantolare e non il contrario) è di origine etrusca. Lo dimostra in maniera chiara il gentilizio femm. RANΘULA, RANΘVLA «Ràntula»,
il quale evidentemente significava «rantolona, russatrice». Per questa
tesi abbiamo una importante conferma nel gentilizio latino Rantulanus
(RNG), che evidentemente significava anch’esso «rantolone, russatore».
E ne deriva anche una importante conseguenza: l’usatissimo prenome o
nome personale femm. etr. RAMΘA, RANΘA in effetti era l’“ipocoristico”
o il diminutivo-vezzeggiativo di RANΘULA, RANΘVLA, significando
pertanto «rantoloncina, piccola russatrice» anch’essa.
rìcino questo fitonimo italiano deriva da quello lat. ricinu(m) (pianta
arbustiva o erbacea delle Euforbiali, frutto a capsula spinosa, grossi
semi da cui si estrae un olio purgativo e un lubrificante industriale’,
ma propriamente ‘zecca’ «sorta d'insetto, che molesta spesso le
capre» e talvolta anche l’uomo), nome dato alla pianta per la forma dei
suoi semi (finora di origine ignota; DELI², Etim), probabilmente è da confrontare col gentilizio etr. REICNA (ThLE² 344) ed inoltre col toponimo toscano Riècine (TTM 33).++
tallero vedi dollaro.
tartaruga «animale lento e infernale» - Il vocabolo ‘tartaruga’ (tardo lat. tartaruca, tartuca)
ha dato molto filo da torcere ai linguisti etimologi, nonostante che la
sua documentazione vastissima sia in termini quantitativi sia in
termini geografici. Esso infatti è presente, oltre che in italiano, in
francese, occitano, catalano e spagnolo (Etim), anche in numerose varianti dialettali (REW).
I linguisti hanno proposto numerose etimologie, le quali per ciò stesso
si eliminano a vicenda. Esclusa del tutto la possibilità di spiegare il
nostro vocabolo con una base latina, resta da chiedersi se esso sia
spiegabile con una base del sostrato etrusco-tirrenico, che è pur
sempre molto vasto, dato che abbraccia quasi tutta la penisola
italiana, la pianura padana e perfino l’Arco Alpino (Ginevra, Lugano,
Chiavenna, Belluno, Vipiteno sono toponimi etruschi) e le isole d’Elba,
di Corsica e di Sardegna. E la risposta è affermativa.- Tra i relitti
della lingua etrusca conservatici si trova il vocabolo ΘARΘIE (Liber linteus, III 19; VIII 32) (pure nella variante ΘARTEI (Liber linteus, VIII 18) col significato assai probabile di «lentamente», da confrontare col lat. tarde «con lentezza» (finora non spiegato; DELI², Etim). E nel Liber linteus
sembra che si tratti di un invito fatto al sacerdote officiante a
pronunciare lentamente e cioè con particolare attenzione una formula od
un vocabolo. Addirittura il vocabolo vinum una volta compare
intervallato con un punto V·I·N·U·M per invitare il sacerdote a
pronunciarlo lentamente e attentamente, proprio come fa il sacerdote
cristiano che rispetto al vino pronunzia lentamente la formula ‘hoc est sanguis meus’.
E qui c’è da precisare che la ‘liturgia’ della religione etrusca,
attraverso la mediazione di quella romana, ha influenzato parecchio la
‘liturgia’ del cristianesimo (la ‘liturgia’ non la ‘dottrina’, si badi
bene!). Particolarmente notevole e significativa è la continua presenza
nel sacrificio etrusco del pane e del vino e della loro assunzione,
dell’uso dell’acqua e dell’incenso, di torce o candele accese, del
calice d’oro e della sua elevazione, della patena, quasi esattamente
come risulta nella messa cristiana. Dunque ormai è chiaro: ‘tartaruga’
significa «animale tardo o lento». Però è intervenuto presto un
accostamento paretimologico col greco-latino ‘Tàrtaro’ o ‘inferno’
(regno dei morti e delle tenebre), per cui tartaruga ha finito col
significare anche “animale infernale”.- D’altra parte esiste pure
l’appellativo italiano ‘tàrtaro’ «gromma, sudiciume del corpo umano»,
il quale non deriva affatto dal Tàrtaro (= ‘inferno’), mentre è
omoradicale col sardo-nuorese tartaddu, trattaddu «tartaro, gromma, sudiciume», molto probabilmente relitto protosardo (suffisso -add-) da confrontare – non derivare - col greco tártarhos «baratro oscuro», «Tartaro» (= ‘inferno’) (probabilmente prestito orientale per i GEW, DELG, cioè - dico io concludendo – probabilmente ‘relitto pelasgico-tirrenico’.
turpe - L’aggettivo italiano ‘turpe’ «sconcio, vergognoso, osceno-a» ‘brutto, deforme’ (1879, TB), ‘disonesto, vergognoso’ (turpo: av. 1321, Dante; turpe:
1341-42, G. Boccaccio), ‘osceno, ributtante’ (1879, TB) ‘sfigurato,
laido’, ‘disonesto’ risulta fino ad ora privo di etimologia. Per il
vero esso deriva propriamente dal lat. turpis-e, il quale però finora è di origine ignota (DELL, DEI, AEI, DELI², Etim). Ebbene a mio giudizio ‘turpe’
deriva dall’etrusco, come dimostrano questi due gentilizi etruschi:
TURPLI, TURPLIS «(di) Turpilio», TURPLNEI «Turpilinia», gentilizi, ai
quali corrispondono quelli latini Turpilius, Turpilinus-a (RNG) (suff. -in-; LICE norma 5) (ThLE).
vanga deriva dal tardo lat. vanga (sec. IV d. C., Palladio) a sua volta dall’etrusco VANKA (TLE
478). Gli Etruschi erano famosi come fabbricanti e venditori di
attrezzi di ferro. Anche in questo caso gli etimologi avevano del tutto
inutilmente pensato al cimbrico oppure al germanico in genere.
veltro ‘cane forte e veloce, da inseguimento e da presa, simile al levriero’ (1304-08, Dante); ant. francese veltre ‘cane usato soprattutto nella caccia dell'orso e del cinghiale’, Lex Salica [VI sec.] veltrus; il quale è da confrontare con l’etr. VELΘRE, VELΘRI «Velturio», gentilizio masch., da confrontare con quello lat. Velthurius (RNG). Vedi VELΘRINAL, VELΘURA (ThLE).
Massimo Pittau, 2019
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